martedì 3 aprile 2018

Calcoli sbagliati

global

La nuova sincronicità storica
- La fine della modernizzazione e l'inizio di un'altra storia mondiale -
di Robert Kurz

Attualmente, la discussione sulla globalizzazione sembra essere in una fase di esaurimento. Ciò non è dovuto al fatto che il processo sociale che lo sottende si sia esaurito, ma sono piuttosto i tentativi di interpretazione ad avere il fiato corto. Quasi nessuno osa dire che la storia della modernizzazione sia arrivata al capolinea. Ci sono ora intere biblioteche riguardo al fatto che la modernizzazione del capitale (la dispersione trans-nazionale delle funzioni che governano l'economia imprenditoriale) abbia dissolto la separazione esistente fra economia nazionale e mercato mondiale, dissolvendo così allo stesso modo anche il vecchio quadro di riferimento. Ma, a tutt'oggi, sono pochi coloro che a partire da questo ne abbiano assunto le conseguenze. Si continua a trascinarsi dietro i vecchi concetti, anche quelli che non corrispondono più alla nuova realtà.
Per molto tempo, l'apice della riflessione critica ha coinciso con l'affermare la particolarità nazionale in contrapposizione all'universalità astratta del modo di produzione capitalistico moderno. Negli anni '70, l'«eurocomunismo» affermava che la teoria marxista era rimasta generica per troppo tempo, e che quindi aveva bisogno di essere «concretizzata» a livello nazionale, al fine di creare un socialismo popolare «con i colori» della Francia, della Germania, dell'Italia, ecc. Ma quest'affermazione era già reazionaria nel momento stesso in cui veniva formulata. Nel processo di globalizzazione, il processo si è invertito. La particolarità nazionale è diventata essa stessa una vuota astrazione, del nostro tempo, certamente, ma solo in quanto sedimento di un'epoca che non esiste più. Si fa storia nazionale sono in quanto storia del futuro. Oramai, non ci sarà più una storia della Francia, del Brasile o della Cina. In futuro, la concretezza storica, nel suo quadro referenziale immediato formato dalla società mondiale, non si rapporterà più con delle particolarità e con dei contesti nazionali, ma trans-nazionali. La stessa cosa vale anche per le identità culturali, per i movimenti sociali e per i conflitti «post-politici».
Ma quella comunità forzata che è la «Nazione» non è l'unica caratteristica dell'epoca ad essere diventata obsoleta. Alla struttura spaziale dei particolarismi nazionali, separati gli uni dagli altri, corrisponde anche la struttura temporale dei differenti livelli di sviluppo capitalistico, essi stessi separati gli uni dagli altri. L'universo delle nazioni era un universo della non sincronicità storica. È avvenuto solo poco a poco che il sistema moderno di produzione delle merci si diffondesse a partire dall'Europa. Ciò perché, nel corso del XIX e del XX secolo, i diversi stati dello sviluppo capitalistico coesistevano, l'uno a fianco all'altro. Quello che, per gli uni, faceva ancora parte dell'avvenire, per altri costituiva il presente, se non il passato. Questa disparità del tempo storico ha generato in maniera quasi spontanea il paradigma dello "sviluppo", che si è tradotto nella folle corsa cui diedero inizio, all'interno delle categorie capitalistiche, i ritardatari storici per poter recuperare il ritardo. Nel corso del XIX secolo, la Germania e gli altri paesi dell'Europa continentale attraversavano una «modernizzazione di recupero» rispetto alla Gran Bretagna; nel corso del XX secolo, la Russia, la Cina e gli ex paesi coloniali del Sud globale hanno tentato di fare lo stesso in rapporto all'Occidente. Qui, la nazione è lo spazio specifico della non sincronicità storica.

Era un identico paradigma, quello che doveva determinare il movimento operaio classico in Occidente; salvo ce, in questo caso, la «modernizzazione di recupero» non si riferiva, o quanto meno non principalmente, alla posizione delle nazioni interessate in rapporto alle altre nazioni più avanzate, ma si riferiva soprattutto alla situazione giuridica e politica dei lavoratori in rapporto alle altre classi sociali, all'interno di una nazione. Qui, quel che era in gioco, era il «riconoscimento» dei lavoratori salariati in quanto soggetti giuridici della loro propria forza lavoro e in quanto cittadini a pieno titolo. Il suffragio universale ed egualitario, l'uguaglianza giuridica delle donne, il diritto di sciopero, il diritto di associazione, la libertà di riunione e l'autonomia contrattuale furono tutti aspetti importanti di questa «modernizzazione di recupero» che rimaneva legata alle relazioni interne della società e che, anche nei paesi occidentali più avanzati, venne completata solo nel corso del XX secolo. Al riconoscimento esterno dei ritardatari dell'Est e del Sud come nazioni sul mercato mondiale, corrispondeva il riconoscimento interno - a livello giuridico-politico - dei salariati come cittadini e come soggetti giuridici. Ma, in tal senso, questo riconoscimento di è rivelato una trappola storica. Poiché, nel momento stesso in essi accedevano al riconoscimento formale in quanto soggetti del capitalismo, le società delle diverse regioni del mondo si vedevano rinchiuse (proprio come ciascun lavoratore salariato preso individualmente), senza alcuna alternativa, nelle forme nazionali e sociale proprie del sistema moderno di produzione di merci. Le nazioni della «modernizzazione di recupero», così come i partiti ed i sindacati operai nazionali, si trasformarono in esecutori delle pseudo «leggi naturali» economiche di questo sistema. Al giorno d'oggi, nelle condizioni della globalizzazione, queste nazioni non hanno altra scelta se non quella di gestire la crisi del capitalismo in maniera più o meno repressiva. Quel che ha fatto la socialdemocrazia occidentale all'indomani della prima guerra mondiale, oggi si ripete su scala mondiale.
Si potrebbe pensare che questo sviluppo negativo abbia infangato la gloria esibita dalla «liberazione nazionale» e dai partiti operai nazionali. In un certo senso, è proprio così. In tutto il mondo, cresce il malcontento nei confronti delle istanze politiche della sinistra tradizionale. Con la nuova crisi globale, queste istanze hanno perso completamente il loro carattere oppositivo, dal momento che rimangono attaccati ai paradigmi ormai obsoleti della «modernizzazione di recupero». Tuttavia, questi paradigmi rimangono radicati in maniera così profonda da continuare a funzionare, anche rispetto agli scontenti. Ed il modo in cui - nella sua lotta contro la vecchia opposizione che ha scelto di rappresentare il sistema - la nuova opposizione si aggrappa ciecamente a dei modelli diventati obsoleti, i modelli dell'universo della non sincronicità storica ormai scomparsa; questo modo ha qualcosa di fantasmatico, di spettrale. Perciò, quando la nuova opposizione critica la cogestione della crisi da parte dei vecchi movimenti di liberazione nazionale e dei partiti operai tradizionali andati al potere, questa critica si rivela senza forza e non credibile, in quanto essa non fa altro che ripetere, ancora e sempre, nei suoi contenuti, ciò che oggettivamente ha fallito ormai da molto tempo.

Questo diventa particolarmente evidente nel caso del movimento planetario contro la globalizzazione capitalista e le sue manifestazioni, i suoi social forum e le sue conferenze, da Porto Alegre a Parigi, da Firenze a Berlino, ecc. Questo movimento è certamente organizzato a livello transnazionale, ma paradossalmente continua a contare fra i suoi membri - oltre ai gruppi che operano direttamente su scala transnazionale - altri gruppi politici che rimangono nazionali, e perfino, fra loro, alcuni le cui organizzazioni sono al potere ed applicano quelle «leggi economiche» i cui effetti vengono combattuti dal movimento sociale globalizzato.
Ma è soprattutto il contenuto della maggior parte delle rivendicazioni a rimanere completamente esterno al processo di globalizzazione. Il movimento, transnazionale almeno nella sua forma, lotta per una «regolamentazione politica» dei mercati finanziari e delle condizioni generali di produzione e di distribuzione delle merci, mentre la logica di una simile regolamentazione rimane legata al quadro costituito dallo Stato nazionale. Ed è proprio questo processo che ha storicamente fallito all'unico livello che gli corrispondeva - quello dello Stato nazionale -  che si vorrebbe far rivivere, nell'attualità della scala globale. Si tratta di un'opzione disperatamente anacronistica ed irrealistica.
Questa sottocritica parte sempre implicitamente dall'idea secondo cui le società potrebbero continuare a crescere finché non avranno "riempito" il quadro stabilito dalla modernità borghese, mentre la globalizzazione e la terza rivoluzione industriale hanno già fatto esplodere questo quadro. I presupposti economici e filosofici che ne costituiscono lo sfondo, si rivelano anch'essi ugualmente anacronistici.
Dal punto di vista economico, si spera che l'enorme massa che costituisce la forza lavoro a buon mercato continui a formare una riserva per la valorizzazione del capitale - oggi, non più sotto forma di uno sviluppo nazionale, ma sotto la forma del capitale transnazionale e globalizzato. Gli uni sperano e gli altri temono che, da tutto questo, possa emergere una nuova era di sfruttamento, nel senso tradizionale del termine. Quest'opzione si fonda in parte sull'idea della «produttività sociale media». Nei paesi capitalisti sviluppati, questo grado medio di scientificizzazione tecnologica della produzione è relativamente elevata; ed è relativamente bassa nei paesi periferici. Oramai ci si aspetta che, con il progredire della globalizzazione, si stabilisca una nuova media della produttività su scala globale. Questa media sarebbe inferiore alla media attuale dell'Occidente, ma sarebbe superiore alla media attuale dell'Est e del Sud. Questo nuovo standard deve permettere di riassorbire  nel processo di valorizzazione del capitale delle parti considerevoli della ricerca di forza lavoro mondiale attualmente inattiva.

Ma questo calcolo è sbagliato. Dal momento che come si fa a misurare la media della produttività? La si misura a partire dal grado medio della scientificizzazione tecnologica della produzione. Ma quello che è decisivo, è il quadro al quale si riferisce tale media, e questo quadro naturalmente è il livello economico della riproduzione sociale, raggiunta da ciascun paese. Dal momento che è solo all'interno di un'economia nazionale che esistono delle condizioni generali che possono costituire qualcosa che possa essere considerata come una «media sociale». Queste condizioni includono il livello di sviluppo delle infrastrutture, del sistema della formazione, ecc. Ma a livello del mercato mondiale, simili condizioni generali comuni non esistono affatto. È questo il motivo per cui non può esserci neppure una media globale della produttività. Non si possono paragonare i rapporti esistenti fra le nazioni, o le regioni, ed il mercato mondiale, con i rapporti che intrattengono le imprese all'interno di un'economia nazionale. Quindi, su scala mondiale, quello che si impone è necessariamente  lo standard di produttività dei vecchi paesi industrializzati occidentali, più sviluppati dal punto di vista capitalistico. Nella misura in cui la mondializzazione rende lo spazio nazionale oggettivamente obsoleto, questo standard costituisce, in maniera diretta e senza filtri, lo standard mondiale per tutti gli attori partecipanti al mercato. La speranza che si abbassi, all'interno del nuovo sistema transnazionale di riferimento, lo standard di produttività socialmente redditizio, e che questo faciliti la reintegrazione nella produzione della forza lavoro non utilizzata, è una speranza illusoria.
Da un punto di vista filosofico, è una speranza anacronistica assai simile quella che determina il pensiero degli insoddisfatti. La filosofia di quel che viene chiamato Illuminismo, le cui basi vennero gettate nel XVIII secolo, in effetti viene sempre considerata come un orizzonte intellettuale insormontabile. Anche qui, ci si comporta come se la società potesse ancora soddisfare le condizioni della modernità borghese . E, a questo proposito, la nuova opposizione non va molto al di là di quanto andasse quella vecchia; al contrario. Tuttavia, il paradigma dei Lumi non è meno esaurito di quanto lo sia l'economia del sistema di produzione di merci, di cui esso era solo l'espressione filosofica. Le idee centrali dell'illuminismo, vale a dire la «libertà», e l'«uguaglianza» dell'«individuo autonomo» e la sua «auto-responsabilità», sono, per quel che significano, fatte su misura per la forma capitalista del soggetto del «lavoro astratto» (Marx), dell'economia d'impresa, del mercato totalitario e della concorrenza universale. La libertà e l'uguaglianza nel senso dell'Illuminismo sono sempre state identiche alla sottomissione degli individui alle forme sociali del sistema capitalista.

La lotta del movimento operaio classico e dei movimenti di liberazione nazionale per il «riconoscimento» giuridico e politico poteva richiamarsi alla filosofia dei Lumi, poiché quella lotta aveva solamente un obiettivo: entrare e crescere nelle forme sociali generali che sono costituite, come nel dominio economico, dalla nazione. Il diritto borghese esiste solo nelle sue forme nazionali. Rompendo il quadro nazionale, la globalizzazione non solo rende obsoleta la forma economica del soggetto borghese, ma anche la sua forma giuridico-politica. Quindi, viene sancita anche storicamente la fine della filosofia dell'Illuminismo. Invocare ancora l'idealismo della libertà borghese non ha più senso in quanto, per questo tipo di libertà, non esiste più alcun margine di manovra emancipatrice possibile. Lo stesso avviene anche per quelle regioni del pianeta che non sono mai andate oltre l'inizio dittatoriale di una generalizzazione della forma soggetto moderna. Così come avviene per la produttività economica, anche la soggettività borghese viene misurata dallo standard globale unificato, al di fuori del quale standard ricade la maggior parte degli esseri umani.
Evidentemente, il nuovo movimento sociale, in tutto il mondo, non è cosciente di queste condizioni. La formazione delle strutture transnazionali del capitale coincide con un'epoca di sincronicità storica. Sebbene le situazioni di partenza, ereditate dal passato, siano differenti, i problemi dell'avvenire non possono più essere formulate che in quanto problemi comuni ad una società globale immediata. I vecchi paradigmi della sinistra (nazione, regolamentazione politica, riconoscimento borghese, illuminismo) sono oramai obsoleti, sia nella loro forma che nel loro contenuto. La critica dev'essere più radicale, se vuole cogliere i presupposti repressivi di questi stessi concetti, invece di rivendicarne gli ideali. Altrimenti, si rivelerà un buco nell'acqua.

- Robert Kurz - 2003 - Apparso in Avis aux naufragés. Chroniques de la crise, Lignes, 2005 -

fonte: Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme

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