martedì 1 agosto 2017

Insostenibile!

Venezuela-y-china

La primavera nera dell'anti-imperialismo
- Un'alleanza poco santa dei disorientati della modernizzazione -
di Robert Kurz

È possibile che sognare il mondo di domani possa muovere il mondo. Ma alcuni sogni sono meri fantasmi del mondo di ieri ormai appassito. Gran parte della sinistra oggi non dispone di alcun orientamento per quel che riguarda il futuro. Dappertutto nel mondo, la sinistra preferisce tornare ai paradigmi della politica tradizionale, basata sugli Stati nazionali. È per questo motivo che la globalizzazione reale viene smentita ed ignorata oppure viene condannata. E la critica non comincia dalle categorie di base storicamente obsolete del "lavoro astratto", della forma merce, della "valorizzazione del valore" e delle relazioni capitaliste di genere nella nuova società mondiale. Essa si limita ad un riferirsi superficiale al "capitale finanziario ed al potere imperiale esterno degli Stati Uniti. In questo modo, nelle nuove condizioni, nasce una convergenza delle posizioni di sinistra e di destra, con un accento antisemita. Dal momento che nella storia moderna, gli ideologhi irrazionali hanno da sempre identificato il denaro speculativo con gli "ebrei".
Nel clima di un'evocazione regressiva delle forme storicamente decadenti della politica, l'anti-imperialismo sta vivendo anche una primavera nera, che non ha niente a che vedere con le speranze delle rivoluzioni nazionali del passato. Contro l'imperialismo della sicurezza ed il colonialismo di crisi occidentale guidato dagli Stati Uniti, la sinistra politicamente senza speranza si propone sempre più nella sfera esterna come un contrappeso, costituito da regimi che, nel processo globale di crisi, sembrano animare la vecchia sovranità nazionale. In questo modo il vero carattere di questi regimi è evidente. Si tratta di una concezione puramente di politica di potere, senza alcuna considerazione per il contenuto storico-sociale ed ideologico. C'è una differenza decisiva con il vecchio anti-imperialismo, il quale, non metteva neanche in discussione il moderno sistema produttore di merci e, insieme ad esso, il mercato mondiale, eppure anche così, nonostante questa riduzione, difendeva una rivendicazione ideale di emancipazione. Alla base di questo stavano gli spazi di manovra di uno sviluppo nazionale che doveva essere realizzato nel corso dell'espansione capitalista. Nelle condizioni della nuova crisi mondiale, di tutto questo non è rimasto niente.

Nel senso di una riformulazione di un anti-imperialismo svincolato dalle sostanziali rivendicazioni precedenti e ridotto ad un guscio vuoto, il presidente del Venezuela, Hugo Chávez, considerato il nuovo portatore di speranza della sinistra latinoamericana, ha elogiato il "triangolo di forza" formato da Iran, Russia e Cina, mirando con questo ad una sorta di alleanza contro il neoliberismo e contro la politica nordamericana delle guerre di ordinamento mondiale, e già fallito in Iraq. Ma qui non si manifesta più alcuna contrapposizione autonoma che possa sostenere una logica interna di sviluppo e di liberazione. Viene solo mostrato l'altro lato della crisi globale. Caratterizzati come nemici degli Stati Uniti e della politica interventista occidentale, questi stessi regimi sono componenti del processo di destabilizzazione e, in questo senso, sono inseriti nella decadenza del diritto borghese. Il quadro comune del mercato mondiale, che nella storia della modernizzazione ha spinto all'opposizione fra il potere imperiale e la "lotta per il riconoscimento" anti-imperialista, è diventato, con l'estinguersi del potere della modernizzazione, il campo di forza di una tendenza alla barbarie che riguarda tutti gli attori statali.
Si tratta di un'alleanza poco santa fra i disorientati della modernizzazione arrivata alla fine, destinata a sostenere il nuovo anti-imperialismo degli Stati nazionali. Soprattutto, non si tratta di rivitalizzare un programma economico-politico contro la globalizzazione; la posta in gioco sono gli effetti collaterali della globalizzazione stessa. Il fondamento della pretesa "forza" per quanto riguarda i paesi esportatori di petrolio - Russia, Iran e Venezuela - non è una prospettiva storica indipendente che va al di là del moderno sistema produttore di merci, ma il banale raddoppio del prezzo del petrolio, che ha portato a miliardi di dollari dentro le rispettive casse. Ora, il prezzo del petrolio non è in realtà in alcun modo un indicatore della trasformazione sociale, non è nient'altro che una funzione del movimento del mercato mondiale. Allo stesso tempo, non si tratta di una riproduzione sociale auto-sostenibile, ma è piuttosto un momento meramente speculativo e totalmente incerto nel contesto di crisi del sistema mondiale.
Per questa ragione, l'insperata benedizione dei miliardi provenienti dal petrolio non consolida dei programmi di sviluppo sostenibile. Il regime di Putin in Russia rappresenta solamente la rovina di una ex potenza mondiale della fallita "modernizzazione di recupero". I servizi segreti converte in Stato amministrano la miseria delle masse disperate per mezzo della repressione sociale e politica, al fine di riprodurre su un terreno ridotto l'incubo di un impero periferico, che ora si alimenta solo di petrodollari. Il regime dei Mullah, che vuole avere armi atomiche in base anche ai petrodollari, devasta l'Iran col terrore religioso e rappresenta un neo-patriarcato misogino. I dissidenti e la sinistra vengono decimati a migliaia; il nuovo presidente Ahmadinejad fa dell'eliminazione di Israele il suo programma e definisce come "mito occidentale" l'annientamento degli ebrei europei da parte dei nazisti. Dimostra di essere intellettualmente demoralizzante quando Chávez accetta la follia antisemita e chiama "fratello" Ahmadinejad. Ma anche il caudillismo messianico dello stesso Chávez presenta tratti dubbi. La "rivoluzione bolivariana", che sulla base di un'ideologia nazionalista limitata deve diventare il paradigma  per l'America Latina, coincide con la sua persona. Le riforme sociali organizzate sotto forma parastatale senza dubbio favoriscono immediatamente i poveri, ma, nel senso di una riproduzione sociale autonoma, rimangono vuote e incerte, nella misura in cui si basano unicamente su una sovvenzione oscura sostenuta dai petrodollari. E, nel contesto di un "gemellaggio" con un regime come quello iraniano, oscura l'orizzonte ideologico di questi sforzi.

Dall'altra parte, la presunta "forza" della Cina si trova in una relazione reciproca precaria con la nuova ricchezza speculativa del petrolio dei paesi esportatori. In quanto è proprio l'industrializzazione cinese rivolta all'esportazione che ha essenzialmente contribuito all'esplosione del prezzo del petrolio. In pochi anni la Cina è diventata, dopo gli Stati Uniti, il secondo maggior consumatore di petrolio. Tuttavia, quel che appare come offensiva cinese nell'esportazione rappresenta ancor meno la funzione di un programma di sviluppo nazionale; finora, si tratta piuttosto del maggior effetto collaterale della globalizzazione. Questa corrente di esportazioni si basa per lo più sugli investimenti dei conglomerati occidentali (in primo luogo, degli Stati Uniti e dell'Unione Europea), che, nel corso del loro "outsourcing" globale, hanno fatto della Cina la piattaforma girevole delle catene transnazionali di creazione di valore. Per questo la Cina ha registrato anche, dopo gli Stati Uniti, il secondo maggior afflusso di investimenti stranieri diretti. Vale a dire, nessuna traccia di autonomia nazionale, ma solamente il risultato di salari estremamente ridotti e dell'assenza di diritti degli schiavi che lavorano nelle zone dell'economia di esportazione, in maggioranza giovani e dislocati. Allo stesso tempo questi investimenti rimangono isolati. La riproduzione sociale nella zona più ampia è minacciata dal collasso di parte di questo stesso sviluppo. È in questo modo che si è costituito in Cina il paradosso di un capitalismo di minoranza sfrenato e transnazionale, protetto dal tetto politico dell'apparato di potere, comunista alla vecchia maniera e paternalista. Con azioni militari e di polizia, una burocrazia corrotta cerca di placare le contraddizioni sociali che dilaniano il paese.

In queste condizioni, il vago progetto di un'alleanza anti-imperialista di paesi esportatori di petrolio con la Cina è una chimera. È probabile che non si realizzi niente di una simile alleanza, poiché le rispettive posizioni sul mercato mondiale sono totalmente diverse e perfino opposte. Nella stessa misura in cui la Cina è diventata il nuovo Eldorado per l'outsurcing dei conglomerati transnazionali, gli investimenti diretti in America Latina sono stati ridotti. Il Messico, che negli anni 1990 era ancora, nel quadro della Nafta [Accordo di libero commercio fra Stati Uniti, Messico e Canada], una delle regioni preferite di investimento per i conglomerati nordamericani, oggi è ormai prosciugato sotto questo aspetto. Vista la vicinanza con gli Stati Uniti, ormai non ne vale la pena. visto che il lavoro cinese è ancora più a buon mercato. Un destino simile ora minaccia gli altri paesi dell'America Latina. Anche le speranze nei grandi investimenti cinesi in Argentina e in Brasile sono state ben presto frustrate.
Invece, nel frattempo le merci a buon mercato delle industrie cinesi (in realtà, prodotti di outsourcing transnazionali dei conglomerati degli Stati Uniti e dell'Unione Europea) inondano i mercati latinoamericani. Sicuramente sono aumentate anche le esportazioni latinoamericane verso la Cina. Ma, in primo luogo, qui si tratta quasi solo di materie prime. In questo modo, si riproduce per mezzo della globalizzazione solo la vecchia relazione di dipendenza fra centro e periferia nella nuova configurazione. In secondo luogo, le esportazioni verso la Cina e le importazioni provenienti dalla Cina si trovano in completo squilibrio. Nel 2005, le esportazioni del Brasile verso la Cina sono aumentate del 9%, le importazioni a loro volta del 50%. La crescente eccedenza di importazioni provenienti dalle zone cinesi dell'economia esportatrice va dagli articoli di fuoco d'artificio, giocattoli, tessuti e calzature, fino all'elettronica, le automobili, aeroplani, acciaio e prodotti chimici. L'America Latina si vede minacciata, in questo modo, da una nuova de-industrializzazione.

Il progetto di un'alleanza antimperialista fra i paesi esportatori di petrolio, la "rivoluzione bolivariana" e la Cina si rivela essere del tutto fragile quando l'ultimo anello della concatenazione della catena globale viene inserito nell'analisi. Così come la nuova ricchezza del petrolio dipende dall'industrializzazione esportatrice transnazionale della Cina, questa dipende dal consumo degli Stati Uniti. Qui si chiude il cerchio. È unicamente il flusso di esportazione del tutto unilaterale che attraversa il Pacifico che sostiene la pretesa crescita. L'alluvione sui mercati latinoamericani è soltanto un effetto collaterale dell'inondazione dei mercati nordamericani per mezzo delle merci provenienti dalla Cina. Il consumo nordamericano, a sua volta, si basa essenzialmente sull'afflusso di capitale monetario transnazionale, ossia, sull'indebitamento. Gli Stati Uniti sono da molto tempo il paese con il più alto debito esterno del mondo. La solvibilità di questo indebitamento viene garantita, tuttavia, proprio dalla posizione degli Stati Uniti come ultima potenza mondiale, soprattutto a causa della loro macchina militare senza uguali.
Le politiche sociali ed estere dei paesi esportatori di petrolio, sovvenzionate con i petrodollari, dipendono quindi, in ultima analisi, proprio dalla congiuntura che unisce la solvibilità ed il potere militare del proprio nemico imperiale. Che contraddizione! In realtà, Chávez deve pregare perché la potenza del male degli Stati Uniti continui intatta, dal momento che, in caso contrario, crollerebbe il castello di carte dei sogni politici diffusi. È probabilmente il momento irrazionale più profondo di questa costellazione, che provoca l'oscuramento ideologico del presunto nuovo antimperialismo, fino ad arrivare ad essere affetto da disordini antisemiti. Ciò dimostra ancora una volta che la lotta per l'emancipazione sociale dev'essere condotta solamente per mezzo di un movimento transnazionale proveniente dal basso, senza la rassicurazione nazionale della politica del potere. Il carisma antimperialista con una base nazionalista nelle nicchie economiche incerte della globalizzazione non può pretendere alcuna sostenibilità

- Robert Kurz - Pubblicato il 5 gennaio 2016 su “Folha de S. Paulo” con il titolo "Triangolo di Carte" -

fonte: EXIT!

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