sabato 5 agosto 2017

"Adesso li utilizziamo" ?!?!

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« La decisione della mafia di abbandonare il progetto secessionista equivaleva, in pratica, a una drastica virata verso un più familiare gioco tattico sulla linea della tradizionale trattativa con lo Stato nazionale. Se ne ebbero conseguenze immediate di varia natura.
La prima consistette nell’azione per recuperare e potenziare quel classico strumento di interdizione e di ricatto e, a pari titolo, di oculata mediazione per la verifica della forza contrattuale sul terreno dell’“ordine”, costituito dal fenomeno del brigantaggio che nell’immediato dopoguerra era spontaneamente risorto nell’isola, con una vera e propria esplosione di bande criminali dedite a rapine, saccheggi, estorsioni e sequestri di persona, tra le quali, a fianco di quella di Salvatore Giuliano (che occuperà una parte molto importante nella nostra storia) nel Palermitano, si segnalavano quelle meno note, ed efferatissime, dei Badalamenti nell’Agrigentino, di Rosario Avila a Niscemi (la banda detta, appunto, dei “niscemesi”), degli Albanese nelle Madonie, del Trabona nel Nisseno e le altre sparse nelle campagne, dei vari Dottore, Di Maggio, Labruzzo, Li Calzi, Mulè e Urzì (Renda, 1997).

Per il migliore controllo e la più conveniente utilizzazione dei briganti, la mafia si sarebbe avvalsa, come vedremo fra poco, di un organismo “militare” - l’Evis (Esercito Volontario Indipendenza Siciliana) - che, per la verità, era nato dall’iniziativa di un’area di forze separatistiche giovanili, alimentate dalla carica utopistica di un autentico patriottismo siciliano, di per sé eversivo e oggettivamente in netta contraddizione con gli interessi della leadership mafiosa del movimento. Ebbene, la seconda immediata conseguenza della rinunzia alla secessione fu la realizzazione di una tenebrosa operazione che avrebbe consentito di svuotare l’Evis dei suoi contenuti originari e di trasformarlo in uno strumentale contenitore di briganti.

Seguiamo, adesso, per sommi capi, le varie fasi della complessa vicenda. Per comprenderla, occorre rilevare che il movimento indipendentistico siciliano, a dispetto della natura e della composizione tutt’altro che progressista del suo staff direzionale, per affermarsi e diventare (come divenne, infatti, senza dubbio nel periodo 1943-44) un movimento di massa, aveva dovuto dar fuoco alle polveri della più spregiudicata demagogia, diffondendo ambigui e contraddittori messaggi “giustizialisti” che avevano infiammato parecchi giovani, inducendoli spesso ad un’inedita intrepretazione in chiave rivoluzionaria - e, pertanto, radicalmente libertaria e antimafiosa - dello stesso progetto secessionista.
Finocchiaro Aprile era stato l’ispirato trombone di tale demagogia nelle piazze di tutta l’isola. L’effetto inevitabile ne era stato il fenomeno di un indipendentismo di sinistra (il cui leader politico sarebbe stato l’avvocato Antonino Varvaro) che un gruppo di studenti dell’Università di Catania, capeggiati da un loro eccentrico docente, il giovane professore Antonio Canepa, radicalizzarono nella forma avventuristica di un’organizzazione militare che avrebbe dovuto conquistare l’indipendenza siciliana - e, insieme, fare la “rivoluzione” - con le armi.

Così nacque l’Evis nel febbraio-marzo del 1945. Il suo comandante, il Canepa (che avrebbe assunto il nome di battaglia di Turri), era un uomo di fegato: formatosi nel fascismo di sinistra, caduto il regime aveva chiarito a sé stesso le ragioni di un forse originario e confuso antifascismo ed era diventato un agente dei servizi britannici; rientrato a Catania dopo lo sbarco anglo-americano, aveva ripreso servizio come docente universitario di Storia delle dottrine politiche (era stato in precedenza assistente di “mistica fascista”) ed aveva aderito all’indipendentismo, ma con una cultura politica che nel frattempo era diventata qualcosa di simile ad un anarcomarxismo, sensibile alle suggestioni rivoluzionarie del comunismo (Carcaci, 1977).

Egli si professava, infatti, patriota siciliano-comunista, nel senso di concepire la liberazione della Sicilia come un primo passo nella direzione di una rivoluzione nazionale che avrebbe dovuto realizzare finalmente la giustizia sociale nell’isola. Per esigenze tattiche collaborò con principi, duchi e baronetti del movimento (il duchino Guglielmo di Carcaci e il Bruno di Belmonte, i Biondo, i Cupane, i Pottino, i La Motta, i De Stefano, i Petrulla) ed anche con personaggi organici all’alta mafia e alla massoneria come Concetto Gallo e Attilio Castrogiovanni, ma era solito lanciare ai suoi diretti seguaci messaggi come questo: «adesso li utilizziamo, poi ci prenderemo le loro terre».
Le idee che coltivava sono ben riassunte dallo scritto di un suo allievo: «Vogliamo una Sicilia in cui non si perpetui lo scandalo di colossali fortune rette sulla miseria e sull’abbrutimento dei più; soltanto in un regime di vera giustizia sociale potremo dirci indipendenti e liberi».

Un uomo come il comandante Turri risultava tanto prezioso come suscitatore di energie giovanili, quanto scomodo per le idee con le quali tentava di dare al movimento siciliano una strategia nazionalpopolare. Come “delegittimarlo” senza creare gravi turbamenti, e dilaganti defezioni, in quell'area sociale che viveva l'indipendentismo come battaglia per la giustizia?
Finocchiaro Aprile e i suoi amici, all'inizio, fecero buon viso a cattiva sorte e gli diedero via libera anche per l'Evis; ma soprattutto Calogero Vizzini e i “grandi” della mafia dell'establishment, che si erano già decisi, come si è visto, ad abbandonare il separatismo, non potevano che considerarlo come una spina nel fianco, ovvero come una scheggia impazzita, da eliminare al più presto. Ovviamente un orientamento del genere non poteva che essere condiviso dal baronaggio mafioso del latifondo. E, comunque, se qualcuno avesse provveduto ad eliminarlo, tanto i latifondisti che i loro amici gabelloti non si sarebbero certo strappati le vesti.

Sta di fatto che Antonio Canepa fu effettivamente eliminato (ucciso, insieme a due giovanissimi studenti, l’uno ginnasiale e l’altro universitario, Giuseppe Giudice e Carmelo Rosano), il 17 giugno del 1945, su una strada dell’Etna, al bivio Randazzo-Cesarò, reduce da una visita al primo campo militare del suo esercito di volontari. Indubbiamente la morte lo colse in un confuso conflitto a fuoco con una pattuglia di carabinieri di cui esistono vari resoconti ufficiali. Tali resoconti, però, non spiegano a sufficienza le responsabilità dell’accaduto: non chiariscono, per esempio, se il conflitto ci fu davvero o non si trattò invece di una sparatoria unilaterale dei carabinieri, tanto più che il professore-guerrigliero sarebbe morto, secondo quanto scrisse il prefetto di Catania del tempo, «per lo scoppio di una bomba che lo stesso deteneva evidentemente in tasca» (Marino, 1993).

Questa storia delle bombe nelle tasche delle vittime è un classico delle relazioni di polizia di quegli anni. Si aggiungano ai dubbi sulla dinamica dell’episodio gli interrogativi senza risposta sulle sue matrici: non siamo in grado di sapere se si trattò di un incontro casuale o di un agguato accuratamente organizzato e, se organizzato, da quale misteriosa entità e con quali fonti di informazione. Sull’argomento i testimoni sono stati assai contraddittori e reticenti. Ad ogni buon conto, la logica dei fatti, a partire dal valore certo di “movente” che va attribuito agli interessi politici del fronte mafioso, rende tollerabili le illazioni che propongono di interpretare l’uccisione del Canepa come un’esecuzione decisa dall’alto.
Tra l’altro, quanto già conosciamo circa gli organici rapporti stabilitisi tra la mafia e importanti autorità militari italiane all’ombra del Consolato generale degli Stati Uniti, fornisce un’interessante pista interpretativa. Se dalle sensate illazioni potessimo passare a inconfutabili prove documentarie, avremmo modo di appurare un vero e proprio capolavoro tattico della mafia: essere riuscita a trasformare, con un uso improprio di forze dello Stato, una vittima designata della sua astuta violenza addirittura in un martire, da offrire alla venerazione della composita base sociale del sicilianismo!

Quale che sia la “verità vera” sulla morte del professore-guerrigliero, siamo comunque in grado di conoscerne le immediate conseguenze. La sinistra del movimento indipendentistico andò incontro a una logorante vicenda di inesorabile liquidazione.
L'Evis per qualche tempo fu tenuto in vita, ma se ne affidò la guida a Concetto Gallo, un personaggio organico alla mafia, che si sarebbe pomposamente definito erede di Canepa (il “secondo Turri”), ma che, in realtà, non avrebbe avuto altra cura che quella di tentare di dare un sommario inquadramento “militare” al brigantaggio, attuando un piano convenuto coi Francesco Paternò di Carcaci e con Lucio Tasca.
Dopo avere assunto al suo servizio il feroce Rosario Avola, attuò - con la speciale mediazione del barone Stefano La Motta - la più famosa delle sue operazioni: investì del grado di colonnello dell’Evis il bandito Salvatore Giuliano (Carcaci, 1977).»

- da: Giuseppe Carlo Marino. "Storia della mafia - Newton Compton – [Il corsivo è mio!]

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