lunedì 3 aprile 2017

Viaggio continuo

Ulisse

"Sono Odisseo, figlio di Laerte, noto agli uomini per tutte le astuzie, la mia fama va fino al cielo": la figura che ha letteralmente afferrato l'immaginario occidentale sino a plasmarne le fondamenta culturali è inafferrabile. Ulisse, l'eroe del multiforme ingegno, continua ad affascinarci proprio per questo. E' l'uomo del travestimento, dell'ambiguità, delle molteplici identità, dei giochi di parola, della manipolazione politica, le cui uniche verità risiedono forse nel suo essere uomo sino in fondo e nel talento di narratore supremo, tanto che lo si ascolterebbe raccontare le sue "imprese meravigliose" fino "all'aurora divina". Dall'isola di Calipso a quella dei Feaci, dell'accettamento di Polifemo al canto ingannatore delle Sirene, dai sortilegi di Circe, maga incantatrice, alla discesa nell'Ade, al drammatico incontro con i mostri Scilla e Cariddi, per giungere allo sterminio dei Proci e al riconoscimento finale con Penelope: nel suo lungo errare durante il viaggio di ritorno a Itaca va incontro ad avventure strabilianti, ponendosi come campione dell'intelligenza, della conoscenza, dell'esperienza, della virtù etica e della sopravvivenza. Ma la vera attrazione magnetica che ancora oggi il personaggio mitico continua a esercitare su di noi è quella delle sue metamorfosi nel tempo. Ulisse è ovunque, il suo vero viaggio è senza fine.

(dal risvolto di copertina di: Piero Boitani, Il grande viaggio di Ulisse, Il Mulino, € 55,00)


Ulisse fonda l’Occidente
- Audace curiosità, amore per le radici. Ma anche il rifiuto di porsi dei limiti -
(conversazione tra PIERO BOITANI, DONATELLA DI CESARE e GUIDO TONELLI)

DONATELLA DI CESARE — La nostra discussione parte dal nuovo volume di Piero Boitani, Il grande racconto di Ulisse (il Mulino). Un libro prezioso non solo per le splendide immagini e le raffinate riproduzioni artistiche che contiene, ma anche e soprattutto perché ripercorre l’avventura culturale del personaggio forse più avvincente e suggestivo dell’Occidente, ne ricostruisce la «storia degli effetti», il modo in cui Ulisse è stato accolto, letto, interpretato nel corso delle epoche e nelle parti più lontane del globo, ben oltre le Colonne d’Ercole. Nell’incontro sincretico con civiltà diverse, nell’esegesi offerta dall’arte e dalla letteratura, il suo ritratto assume caratteri insospettati, la sua figura si arricchisce e si complica. Ulisse, l’antesignano di tutti gli esploratori, l’eroe della conoscenza, come Dante lo descrive e lo canta, ha d’altronde sempre ossessionato Boitani. Possiamo considerare questa sua opera quasi come un punto d’arrivo?

PIERO BOITANI — Non si arriva mai: il fascino della figura di Ulisse, del resto, è consistito per me, almeno dall’infanzia e dall’adolescenza, nel suo viaggiare per mare e nel suo esplorare terre nuove. Ho sempre visto il protagonista dell’Odissea come intimamente legato al personaggio di Dante: i due sono separati da tante cose, ma anche uniti da molte. Per esempio, i germi del desiderio di conoscenza che contraddistingue l’Ulisse di Dante sono già presenti nell’Odisseo omerico, il quale è sì costretto a viaggiare errabondo sul mare dall’ira di Poseidone, ma non rifiuta mai di fare esperienza del nuovo: così all’arrivo nell’isola dei Ciclopi, mentre i compagni lo esortano a ripartire, Odisseo vuole scoprire chi vi abita, e più tardi vuole ascoltare il canto delle Sirene. Dante non fa che sviluppare questa caratteristica portandola all’estremo, a una libido sciendi fortissima, un desiderio di conoscenza che il suo Ulisse chiama egli stesso «ardore». Mi interessa particolarmente, su questo, il punto di vista di uno scienziato come Guido Tonelli.

GUIDO TONELLI — L’Odisseo curioso, il viaggiatore accorto e paziente, consapevole dei rischi del viaggio, è una figura di grande attualità. Uso il termine omerico proprio per indicare l’Ulisse dell’Odissea. La scienza moderna è una grande avventura collettiva. Gli enormi apparati sperimentali del Large Hadron Collider del Cern di Ginevra dove lavoro sono le nostre navi; il viaggio che facciamo ci porta verso l’ignoto, un non-luogo del non-tempo da cui 13,8 miliardi di anni fa è nato tutto. Abbiamo teorie e carte che ci guidano, ma spesso il caso ci conduce in luoghi sconosciuti; abbiamo navi curate in tutti i particolari, ma basta trascurare un minimo dettaglio e la catastrofe si abbatte su di noi. La nostra ciurma è una comunità colorata e turbolenta di migliaia di menti appassionate, moderni esploratori pazienti e curiosi, pronti, come Odisseo, ad adottare stratagemmi per superare gli imprevisti.

PIERO BOITANI — Analogie come quella che lei evoca hanno una lunga storia. La connessione tra Ulisse e l’esploratore moderno, quello del Rinascimento e poi dell’Ottocento e del Novecento, è esplicita. La stabiliscono non soltanto i poeti (come Torquato Tasso, che vede in Ulisse, quello di Dante, il precursore di Cristoforo Colombo) e gli interpreti della Commedia, ma anche i navigatori stessi: Amerigo Vespucci pensa a Ulisse quando percorre le acque dell’Oceano, e più tardi lo farà anche lo spagnolo Pedro Sarmiento de Gamboa: il quale è persona che ha studiato e, riprendendo gli antichi e Dante, sostiene che Ulisse, dopo aver fondato Lisbona (Ulixabona), abbia attraversato l’Atlantico e fondato la Nuova Spagna. Nell’Ottocento e nel Novecento, il modello sarà l’Ulisse di Alfred Tennyson; e gli esploratori inglesi, sino a Ernest Shackleton quando percorre faticosamente l’Antartide al seguito di Robert Scott, penseranno a quell’Ulisse come loro precursore. Ecco, questo Ulisse — quello di Dante e di Tennyson, ma poi anche di Joseph Conrad e di tanti altri — è il modello europeo, o occidentale, di uomo: l’uomo che vuole conoscere il mondo. Attenzione, non conquistare e colonizzare, compiti ai quali provvedono, in ambito mitico, piuttosto Enea, e persino Giosuè alla conquista della Terra Promessa.

DONATELLA DI CESARE — Tuttavia oggi che la terra è stata scoperta, circumnavigata, percorsa, occupata in tutta la sua rotondità, oggi che non resta quasi più un lembo da perlustrare, mentre il pianeta appare sempre più un astro trasparente, non si può non rivolgere uno sguardo critico a Ulisse e a tutto ciò che questo campione dell’Occidente rappresenta. Come se, giungendo al culmine la globalizzazione, cominciasse anche a sgretolarsi il mito di Ulisse. Malgrado tutto il suo fascino, chi può ancora identificarsi immediatamente con il protagonista del rischio elevato a forma di vita, il paladino della curiosità, insieme razionale eppure estrema, senza pensare agli effetti negativi prodotti da un certo tipo di conoscenza sul mondo circostante e sugli altri? Non si tratta solo della lussuria del sapere, che è anche brama del potere, di una certa hybris, della superba e ostinata fede nelle proprie forze e nei propri propositi, che può sconfinare nella tracotanza e nella prevaricazione. A ciò aveva rinviato già Dante. Forse Tonelli ci dirà che Ulisse ha gli «anticorpi» per resistere alle sirene che lo attraggono verso l’illimitato, che lo spingono a superare un limite dopo l’altro in modo convulso e irrefrenabile. Ma proprio la presenza di questi «anticorpi» è smentita dall’odissea occidentale. E speriamo che la conquista dello spazio, cominciata già da anni, non avvenga con le stesse modalità.

GUIDO TONELLI — L’obiezione è in gran parte fondata. Senza dubbio l’Ulisse dantesco è divorato dalla libido della conoscenza, desidera soltanto lanciarsi nel folle volo. È un personaggio forse emblematico di quell’aristotelismo radicale da cui Dante era stato affascinato in gioventù, e dal quale nella Commedia voleva prendere le distanze. Ulisse che vuole andare nel «mondo sanza gente» è come prigioniero di un mortifero sempre-desiderare, di una sete di conoscenza come coazione a ripetere all’infinito, fino alla perdizione. È questo l’Ulisse che ha segnato di più l’immaginario collettivo fino a diventare paradigmatico di una scienza che non accetta limiti ed è proprio per questo che non mi ci riconosco. Vi ritrovo il seme della moderna follia di una società dominata dal narcisismo, che rifiuta i propri limiti e cerca di cancellare la morte inseguendo il sogno dell’immortalità. È una rassicurante trappola infantile, nella quale cadono in molti, travolti da una specie di delirio di onnipotenza, ma non rappresenta la parte più critica e avanzata della ricerca scientifica moderna.

PIERO BOITANI — Su questo a mio avviso bisogna distinguere. Mentre l’Ulisse di Dante e della tradizione che a lui risale tende a travolgere ogni limite, sia esso costituito dalle Colonne d’Ercole o dalla morte stessa (visto che «a questa tanto picciola vigilia» egli vuole ancora fare esperienza del «mondo sanza gente»), e forse per questo è condannato dal Dio cristiano al naufragio («com’altrui piacque»), l’Odisseo di Omero conosce bene la soglia prima della quale si deve fermare se vuole sopravvivere: quando gli viene ingiunto da Tiresia di non toccare gli armenti sacri al Sole se desidera tornare a casa, Odisseo si guarda bene dall’attaccarli, mentre i suoi compagni, che ne fanno strage per mangiare, non tornano a Itaca vivi: nessuno.

DONATELLA DI CESARE — Vorrei tornare sul modello di conoscenza rappresentato da Ulisse. La questione non è puramente quantitativa: non si tratta di un eccesso a cui si possa rimediare. Qui c’è un soggetto che fronteggia il mondo da solo, per sperimentarlo e conoscerlo; ma la conoscenza non è condivisa e sin dall’inizio mancano gli altri. Smanioso di vivere, avido di tutto, di gustare, di sentire, di provare, Ulisse non mette mai davvero a repentaglio la propria sicurezza, né mette mai in gioco se stesso, la sua identità.

GUIDO TONELLI — Questa critica alla figura di Ulisse non mi trova d’accordo. Ancora una volta tornerei al racconto omerico, che è soprattutto nostos, dolore e dolcezza che ti richiamano verso casa. Odisseo non vuole giro vagare per mari aperti, sogna solo il momento in cui la sua nave approderà nel piccolo porto di Itaca. Trovo profondamente moderna questa aspirazione a navigare di porto in porto. Allo stesso modo il cammino della conoscenza non è una folle corsa irrefrenabile; è piuttosto un susseguirsi di approdi temporanei, giusto un attimo per inorgoglirsi del risultato conseguito, per poi precipitare subito nel nuovo abisso di ignoranza che ti si spalanca sotto i piedi.

PIERO BOITANI — Il punto è proprio questo. L’Ulisse di Dante è, come diceva Ernst Bloch, un Faust del mare, il paradigma dello scienziato che non conosce limiti: quello di Omero è un navigatore forzato, un paziente costruttore di conoscenza legato agli affetti familiari: Eumeo, il cane Argo, la vecchia nutrice Euriclea, il figlio Telemaco, la moglie Penelope, il padre Laerte (che da giovane era stato uno degli Argonauti, i primi navigatori al mondo: tale il padre, tale il figlio!). Le scene di riconoscimento alla fine dell’Odissea propongono una conoscenza diversa, più piena e più felice: non più del mondo o astratta, ma nella carne.

GUIDO TONELLI — Sì, è proprio la carne nella sua consistenza materiale. È intrigante il fatto che la patria a cui Odisseo vuole tornare, sono soprattutto i corpi dei suoi cari; vuole sentire il vecchio cane strofinarsi alle sue gambe, rivedere Laerte prima di morire, stringere fra le braccia il corpo adulto di Telemaco, carezzare le rughe che ormai attraversano il viso di Penelope. Il continuo richiamo agli aspetti corporali continua per tutto il canto: la vecchia cicatrice, il corpo coperto di sale, le mani che hanno costruito il talamo, le braccia che tendono l’arco che strazia il corpo dei Proci, e il suo, dopo la strage, ricoperto di sangue e  terribile a vedersi.

PIERO BOITANI — Da questo punto di vista l’episodio più significativo è l’incontro con la sua sposa. Quando Odisseo termina di raccontare come abbia egli stesso costruito il loro letto dall’ulivo, Penelope gli corre incontro, cuore e ginocchia sciolte, gli getta le braccia al collo e gli bacia il capo, suscitando in lui la voglia di piangere. «Piangeva stringendo la sposa diletta, accorta», dice Omero. Poi attacca una similitudine di sei versi, che chiaramente si riferiscono a lui: come appare gradita la terra a chi fa naufragio e scampa ad esso nuotando ma, tutto incrostato di salsedine, tocca la riva con gioia. Non solo questa similitudine si riferisce a Odisseo perché legata al «piangeva stringendo la sposa», ma descrive l’esperienza di lui, che i lettori dell’Odissea hanno visto sopravvivere al disastro in mare almeno tre volte e in una comparire davanti a Nausicaa proprio cosparso di sale. Ebbene, la similitudine, nonostante tutto questo, non riguarda lui, ma lei:
«così le era caro lo sposo, guardandolo», conclude quei versi Omero. Insomma dice di lei tramite la storia e le immagini di lui. Cioè, Penelope e Odisseo diventano di nuovo una cosa sola, una sola carne. Forse non è l’esaltata conoscenza, da lontano, della «nova terra» che produce la gioia dell’Ulisse di Dante, e il suo ultimo naufragio, ma è esperienza della felicità. Sì, è vero, subito dopo Odisseo riferisce a Penelope l’inquietante profezia di Tiresia sull’ultimo viaggio che dovrà compiere alla ricerca di una terra dove non si conoscono le navi, i remi, il cibo condito col sale (che è poi l’origine di tutti gli infiniti viaggi di Ulisse nella letteratura occidentale e oltre), ma per un attimo egli ha raggiunto la conoscenza suprema.

DONATELLA DI CESARE — Eppure io vedo anche un altro aspetto in questo rapporto carnale con Itaca. Ulisse, a mio parere, non è solo l’antesignano dell’esploratore, il santo protettore dello scienziato — è anche il prototipo del turista. I suoi viaggi in terra straniera sono un allontanamento temporaneo da sé per far ritorno a sé, un passaggio nell’estraneo per far ritorno al proprio, a casa, presso di sé, presso i suoi. Questo vale anche là dove sembra perdersi e non tornare. Itaca resta sempre nel suo orizzonte — insieme alla patria e al mito della patria. L’odissea dell’eroe non è che questo movimento di riappropriazione che contraddistingue la tradizione eurocentrica. In questo senso temo che, pur riconoscendo il fascino e la suggestione che questa figura continua a esercitare, non si possa non condividere una certa critica che il pensiero più recente, da Theodor W. Adorno fino a Marc Augé, ha rivolto a Ulisse.

GUIDO TONELLI — Io penso invece che nel legame di Odisseo con Itaca sia contenuta proprio la risposta alla folle corsa senza limiti dell’Ulisse dantesco. Lui che rappresenta la curiosità, quell’istinto primordiale che condividiamo con altri primati, come gli scimpanzé o i bonobo, ominidi che ci sono parenti molto stretti. Quella stessa curiosità che ha spinto l’umanità bambina ad andare oltre le prime colline che chiudevano la savana; che ancora si annida dentro ciascun bambino e dentro tutti noi quando continuiamo a chiederci da dove viene la meraviglia che ci circonda. È in realtà un Odisseo modernamente consapevole dei propri limiti, fiero delle sue rughe e del suo invecchiare, lontano dall’atteggiamento edonistico del turista. Un personaggio che non a caso rifiuta l’offerta di immortalità con cui lo tenta Calipso. «Non voglio l’eterna giovinezza, cibarmi per sempre di ambrosia e di miele». Eccolo qua il moderno paradigma di una conoscenza critica, ben consapevole dei propri limiti e cosciente della condizione di estrema fragilità umana. Quella stessa irriducibile vulnerabilità che le conoscenze scientifiche più
avanzate sembrerebbero attribuire all’intera struttura materiale dell’universo.

PIERO BOITANI — Condivido questo punto di vista, anzi mi spingerei più in là. Mi ha sempre attratto — stregato, direi — proprio l’aspetto della personalità di Ulisse che nell’Odissea lo riconduce a una dimensione meno eroica. Mentre quello di Dante si sente libero da ogni attaccamento alla moglie, al figlio, al padre, e non ritorna affatto a Itaca ma riparte dalla dimora di Circe (che Dante colloca «là presso a Gaeta») verso l’Occidente, quello di Omero è dominato dalla «malattia del ritorno», dalla nostalgia, e a casa vuole tornare proprio per riabbracciare gli affetti familiari. Considero fondamentale proprio il passo richiamato da Tonelli, quando Ulisse rinuncia all’allettante offerta che gli fa Calipso, di un’immortalità priva di vecchiaia, a favore della mortalità, e poiché la morte non è che un
aspetto della vita, in effetti lo fa per amore della vita. La vita da uomo, di ogni uomo. Platone ha un colpo di genio quando alla fine della Repubblica fa scegliere a Odisseo, per la sua reincarnazione, la persona di un uomo qualunque, un privato cittadino lontano dai furori e dalle avventure che egli aveva sperimentato in vita.
Per reincarnarsi, l’Odisseo di Platone sceglie la vita del Leopold Bloom di James Joyce: l’Ulisse moderno, irlandese ed ebreo.

- Pubblicato su Il Corriere/La Lettura del 13 novembre 2016 -

La pancia batte la testa: la vera astuzia che accecò Polifemo
- di FRANCO FARINELLI -

Che cosa sarebbe successo se Ulisse, intrappolato nella grotta, avesse detto a Polifemo non di chiamarsi Nessuno, bensì il suo vero nome?
Domanda secca ma rivelatrice per una storia antichissima e tra le più note, ma ancora da comprendere.
A ragionare in maniera controfattuale la risposta è sconcertante: se Ulisse avesse detto di chiamarsi Ulisse, i greci si sarebbero salvati molto prima, e molto meglio. Questo perché gli altri giganti avrebbero allora soccorso (a differenza di quel che invece avviene) l’ormai cieco loro simile, e per farlo sarebbero stati
costretti a rimuovere, dall’esterno, il masso che ostruiva la prigione dei nostri eroi: ma così facendo avrebbero appunto risolto il mortale problema, schiudendo loro l’unica possibile via di fuga.
La scena in questione si svolge di notte. I giganti non avevano mai visto i greci. Lo stesso Polifemo, quando alla fine Ulisse gli rivelerà finalmente il vero nome, ricorderà l’antica profezia relativa al suo arrivo, subito aggiungendo di aver sempre creduto che a privarlo della vista sarebbe stato un uomo molto grande e vigoroso, non certo uno piccolo e debole come di fatto Ulisse gli appare. Insomma: se i Ciclopi avessero aperto la grotta, i greci avrebbero potuto svignarsela senza essere nemmeno notati. E proprio il fatto che le cose invece siano andate diversamente è spia che il significato della storia è un altro, che l’astuzia di Ulisse non è quella creduta.
Il formalismo che assicura la salvezza non riguarda la relazione tra il linguaggio e le cose del mondo, come anche Max Horkheimer e Theodor W. Adorno a metà del secolo
scorso hanno ripetuto, non coincide con la scoperta del possibile gioco tra le parole e le cose, ma riguarda la relazione tra il mondo stesso e i modelli mentali (e non linguistici) impiegati per addomesticarlo.
Altro interrogativo che nessun commento o scolio antico sembra porsi: perché Polifemo non è in grado di accorgersi dei suoi nemici celati sotto gli animali, pur cercandoli disperatamente? Fin qui è bastata la spiegazione che lo stesso Ulisse, nel racconto, lascia cadere, risolvendola con un epiteto: Polifemo sarebbe, semplicemente, «uno stolto». Ulisse ha legato ognuno dei suoi compagni sotto una pecora che sta al centro di un gruppo di tre bestie a loro volta legate insieme: seduto sulla soglia con le spalle rivolte verso l’esterno, l’orbo «mostro dal pensiero irragionevole» potrebbe aver tastato lateralmente e non frontalmente gli animali, e perciò non sarebbe arrivato, per l’insufficiente lunghezza del suo braccio, a brancicare il minuscolo greco nascosto sotto l’animale di mezzo. Ma nel caso dello stesso Ulisse, aggrappato sotto l’unico ariete del gregge, la spiegazione comunque non regge: se davvero Polifemo avesse ispezionato con la mano anche il ventre
degli animali, si sarebbe dovuto per forza accorgere della presenza del capo dei suoi nemici, sospeso a pancia in su sotto un solo quadrupede.
La questione è decisamente molto più complicata di come fin qui l’abbiamo pensata, e riguarda l’opposizione tra due differenti concezioni del mondo.
Ha spiegato Jean-Pierre Vernant che per gli antichi Greci il mondo era (esattamente come oggi) un faccenda costituita da gradienti di autorità, da rapporti di forza, da relazioni di potere fondate sul principio che chi sta sopra comanda e chi sta sotto ubbidisce, dunque sull’esclusiva esistenza di livelli. Il mondo di Polifemo, letteralmente pre-politico, è soltanto questo, è il grado zero del mondo, retto dalla pura forza fisica, dal kràtos, e privo di città, di assemblee, di leggi, di vita
sociale, di tradizioni, tutti elementi invece presenti e determinanti in quello greco. Attività sconosciute ai giganti, la navigazione e il commercio fondano invece la tecnica di cui Ulisse è portatore, tecnica opposta a quella dei giganti come il valore di scambio si oppone al valore d’uso, come l’economia di mercato a quella dell’autoconsumo. Il mondo dei marinai è un ambito aperto e non chiuso come quello ciclopico. E Ulisse, presentato nell’Odissea con voluto anacronismo come l’inventore della navigazione astronomica, figura allo stesso modo come colui che applica non più soltanto al cielo ma alla faccia della Terra il modello che quest’ultima implica, e che comporta operativamente la riduzione di questa a tempo di percorrenza, la sua trasformazione, appunto secondo la logica del mercato, nella versione orizzontale del mondo: la rappresentazione che, innestandosi su quella semplicemente gerarchica e verticale dei giganti e incrinandone l’assolutezza,
la condanna alla sconfitta segnando in prospettiva il declino di ogni differenza e valore locale.

Ecco perché il Ciclope insomma non si accorge della presenza dei suoi nemici: non perché trascuri il controllo, o perché impossibilitato a compiere la verifica che ha in mente a motivo dell’insufficiente lunghezza del braccio o della sua cecità; ma al contrario perché egli compie l’unica forma di verifica che è in grado di concepire, quella di chi si limita ad abitare il mondo, e pertanto non vede altro all’infuori dei livelli, vale a dire della gerarchia e della scala di comando. Perciò si limita a tastare il capo e il dorso delle bestie, perché non può pensare che il livello inferiore, la pancia, possa contraddire quel che sta sopra, il livello superiore, che in ogni struttura gerarchica risponde sempre per tutto il complesso.
All’opposto, soltanto la strumentale messa in parentesi della natura gerarchico-verticale del mondo consente la riduzione a semplice dimensione di ogni livello. E senza tale astrazione, che corrisponde alla scoperta e all’aggiunta al mondo di un’inedita versione del mondo stesso, l’astuzia di Ulisse resterebbe inconcepibile.
Proprio in tale astrazione, e non nella scoperta del possibile gioco tra i nomi e le cose, consiste l’autentica e formidabile invenzione formalistica del figlio di Laerte: che è l’invenzione, in una parola, dello spazio. Cioè della modernità. E in questo i filosofi di Francoforte avevano invece ragione, anche se non sapevano davvero perché.

- Franco Farinelli - Pubblicato su Il Corriere/La Lettura del 13 novembre 2016 -

Nessun commento: