martedì 4 aprile 2017

Un frammento e due commenti

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Il capitalismo come religione 
di Walter Benjamin

traduzione di Gianfranco Bonola e Michele Ranchetti
Questo frammento, databile alla metà del 1921, è tratto da:
Walter Benjamin, Sul concetto di storia, a cura di Gianfranco Bonola e Michele Ranchetti, Einaudi 1997.

Nel capitalismo si deve vedere una religione, vale a dire che il capitalismo serve essenzialmente all’appagamento proprio di quelle preoccupazioni, tormenti, inquietudini a cui davano risposta un tempo le cosiddette religioni. La prova di questa struttura religiosa del capitalismo, non solo di una conformazione condizionata religiosamente, come pensa Weber, bensì di un fenomeno essenzialmente religioso condurrebbe ancora oggi sulla cattiva strada di una smisurata polemica universale. Non possiamo chiamare in causa la rete in cui ci troviamo. Più tardi tuttavia di questo ci si potrà fare un’idea.
Però tre tratti di questa struttura religiosa sono già al presente riconoscibili. In primo luogo il capitalismo è una pura religione cultuale, forse la più estrema che si sia mai data. Tutto in esso ha significato solo in relazione diretta al culto, esso non conosce alcuna dogmatica particolare, alcuna teologia. Da questo punto di vista l’utilitarismo assume la sua colorazione religiosa. A questa concrezione del culto è connesso un secondo tratto del capitalismo: la durata permanente del culto. Il capitalismo è la celebrazione di un culto sans rêve et sans merci. Qui non c’è nessun “giorno feriale”, nessun giorno che non sia un giorno di festa nel senso terribile del dispiegamento di tutte le pompe sacrali, dell’estremo impegno dell’adorante. Questo culto è, in terzo luogo, generatore di colpa. Il capitalismo è, presumibilmente, il primo caso di un culto che non toglie il peccato, ma genera la colpa. In ciò questo sistema religioso sta nella caduta di un immenso movimento. Un’immensa coscienza della colpa, che non sa togliersi il peccato, fa ricorso al culto non per espiare in esso questa colpa, bensì per renderla universale, martellarla nella coscienza e infine e soprattutto includere Dio stesso in questa colpa per infine interessare lui stesso all’espiazione. Quest’ultima non la si deve qui attendere nel culto stesso, e nemmeno nella riforma di questa religione, che dovrebbe potersi attenere a qualcosa di sicuro in essa, né nel rinnegarla. Inerisce all’essenza di questo movimento religioso, che è il capitalismo, il perdurare fino alla fine, fino alla finale, piena colpevolizzazione di Dio, il raggiunto stato di disperazione del mondo che per ora ancora si spera. In questo risiede lo storicamente inaudito del capitalismo, che la religione non è più riforma dell’essere, ma la sua distruzione. L’espansione della disperazione a stato religioso del mondo dal quale si debba attendere la salvezza. La trascendenza di Dio è caduta. Ma egli non è morto, egli è incluso nel destino dell’uomo. Questo passaggio del pianeta uomo attraverso la casa della disperazione nell’assoluta solitudine della sua orbita è l’ethos che costituisce Nietzsche. Quest’uomo è il superuomo, il primo che riconoscendo la religione capitalistica inizia ad adempierla. Il quarto tratto di essa è che il suo Dio dev’essere tenuto segreto, ci si può rivolgere a lui solo allo zenit della sua colpevolizzazione. Il culto
viene celebrato davanti a una divinità ancora immatura, ogni idea, ogni pensiero rivoltole ferisce il mistero della sua maturazione.

La teoria di Freud appartiene anch’essa al dominio sacerdotale di questo culto. È pensata in modo totalmente capitalistico. Il rimosso, l’idea peccaminosa è per la più profonda analogia, ancora da chiarire pienamente, il capitale che paga gli interessi all’inferno dell’inconscio. II tipo del pensiero religioso capitalistico si trova espresso magnificamente nella filosofia di Nietzsche. L’idea del superuomo sposta il “salto” apocalittico non nella conversione, nell’espiazione, nella purificazione, nella penitenza bensì nell’incremento apparentemente costante, ma nell’ultimo suo tratto esplosivo, discontinuo. Perciò sono inconciliabili l’incremento e lo sviluppo nel senso del non facit saltum. Il superuomo è l’uomo storico arrivato senza conversione, quello cresciuto oltre il cielo. Questo far esplodere il cielo per mezzo di umano intensificato, che religiosamente è e rimane (anche per Nietzsche) produzione di colpa, lo ha pregiudicato Nietzsche. E analogamente Marx: il capitalismo che non si converte diviene, con gli interessi e gli interessi composti, che sono in quanto tali funzione della colpa/debito (vedi la demoniaca ambiguità di questo concetto), socialismo. Il capitalismo è una religione di puro culto, senza dogma.

Il capitalismo – come dev’esser da dimostrare non solo nel calvinismo, ma nelle restanti direzioni cristiane ortodosse – in occidente si è sviluppato parassitariamente sul cristianesimo e in modo tale che alla fine nell’essenziale la sua storia è quella del suo parassita, del capitalismo.
Confronto tra le immagini dei santi di diverse religioni da un lato e le banconote di diversi stati dall’altro. Lo spirito che parla dell’ornamento delle banconote.

Capitalismo e diritto. Carattere pagano del diritto. Sorel Reflexions sur la violence p. 262
Superamento del capitalismo tramite la migrazione Unger Politik und Metaphysik p. 44 Fuchs: struttura della società capitalistica o s. Max Weber: Ges. Aufsätze zur Religionssoziologie 2. Bd. 1919/20 Ernst Troeltsch: Die Soziallehren der chr. Kirchen und Gruppen (Ges. W. 1912)
Vedi innanzitutto la letteratura citata in Schönberg sotto II Landauer: Aufruf zum Sozialismus p. 144

Le preoccupazioni: una malattia dello spirito che è propria dell’epoca capitalistica. Assenza spirituale (non materiale) di via d’uscita nella povertà, monachesimo – vaganti – mendicanti. Uno stato che è così privo di via d’uscita e colpevolizzante. Le “preoccupazioni” sono l’indice di questa coscienza della colpa dell’assenza di via d’uscita. “Preoccupazioni” insorgono nell’angoscia dell’assenza di via d’uscita commisurata alla comunità, non in quella individuale-materiale. Il cristianesimo dell’età della Riforma non ha favorito il sorgere del capitalismo, bensì si è tramutato nel capitalismo.
Metodologicamente si dovrebbe innanzitutto indagare quali collegamenti con il mito abbia istituito il denaro nella storia, fino a che dal cristianesimo ha potuto trarre a sé così tanti elementi mitici da poter costituire il proprio mito.

Guidrigildo / Thesaurus delle buone opere / compenso che è dovuto al prete. Plutone come dio della ricchezza. Adam Müller: Reden über die Beredsamkeit 1816 p. 56 ss.

Connessione con il capitalismo del dogma della natura risolutiva, per noi in questa [sua] qualità al tempo stesso redentiva e omicida, del sapere: il bilancio come il sapere redentivo e liquidatorio. Contribuisce alla conoscenza del capitalismo come religione il richiamare alla mente che il paganesimo originario di sicuro ha concepito in primo luogo la religione non come un interesse “superiore”, “morale” bensì come l’interesse più immediato, pratico, che cioè, in altre parole, proprio come l’odierno capitalismo, non è stato affatto in chiaro circa la propria natura “ideale” o “trascendente”, e anzi nell’individuo irreligioso o eterodosso della sua comunità vedeva un membro certo di essa, proprio nel senso in cui la borghesia odierna lo vede nei suoi appartenenti non produttivi.

- Walter Benjamin -

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Un commento, oggi

di Giorgio Agamben

1. Vi sono segni dei tempi (Mt.16, 2-4) che, pur evidenti, gli uomini, che scrutano i segni nei cieli, non riescono a percepire. Essi si cristallizzano in eventi che annunciano e definiscono l’epoca che viene, eventi che possono passare inosservati e non alterare in nulla o quasi la realtà a cui si aggiungono e che, tuttavia, proprio per questo valgono come segni, come indici storici, semeia ton kairon. Uno di questi eventi ebbe luogo il 15 agosto del 1971, quando il governo americano, sotto la presidenza di Richard Nixon, dichiarò che la convertibilità del dollaro in oro era sospesa. Benché questa dichiarazione segnasse di fatto la fine di un sistema che aveva vincolato a lungo il valore della moneta a una base aurea, la notizia, giunta nel pieno delle vacanze estive, suscitò meno discussioni di quanto fosse legittimo aspettarsi. Eppure, a partire da quel momento, l’iscrizione che tuttora si legge su molte banconote (per esempio sulla sterlina e sulla rupia, ma non sull’euro): “Prometto di pagare al portatore la somma di …” controfirmata dal governatore della banca centrale, aveva definitivamente perduto il suo senso.
Questa frase significava ora che, in cambio di quel biglietto, la banca centrale avrebbe fornito a chi ne avesse fatto richiesta (ammesso che qualcuno fosse stato così sciocco da richiederlo) non una certa quantità di oro (per il dollaro, un trentacinquesimo di un’oncia), ma un biglietto esattamente uguale. Il denaro si era svuotato di ogni valore che non fosse puramente autoreferenziale. Tanto più stupefacente la facilità con cui il gesto del sovrano americano, che equivaleva ad annullare il patrimonio aureo dei possessori di denaro, fu accettato. E, se, come è stato suggerito, l’esercizio della sovranità monetaria da parte di uno Stato consiste nella sua capacità di indurre gli attori del mercato a impiegare i suoi debiti come moneta, ora anche quel debito aveva perduto ogni consistenza reale, era divenuto puramente cartaceo.

Il processo di smaterializzazione della moneta era cominciato molti secoli prima, quando le esigenze del mercato indussero ad affiancare alla moneta metallica, necessariamente scarsa e ingombrante, lettere di cambio, banconote, juros, goldschmith’s notes, eccetera. Tutte queste monete cartacee sono in realtà titoli di credito e vengono dette, per questo, monete fiduciarie. La moneta metallica, invece, valeva – o avrebbe dovuto valere – per il suo contenuto di metallo pregiato (peraltro, com’è noto, insicuro: il caso limite è quelle delle monete d’argento coniate da Federico II, che appena usate lasciavano scorgere il rosso del rame). Tuttavia Schumpeter (che viveva, è vero, in un’epoca in cui la moneta cartacea aveva ormai sopraffatto la moneta metallica) ha potuto affermare non senza ragione che, in ultima analisi, tutto il denaro è solo credito. Dopo il 15 agosto 1971, si dovrebbe aggiungere che il denaro è un credito che si fonda soltanto su se stesso e che non corrisponde altro che a se stesso.

2. Il capitalismo come religione è il titolo di uno dei più penetranti frammenti postumi di Benjamin.
Che il socialismo fosse qualcosa come una religione, è stato notato più volte (tra l’altro, da Schmitt: “Il socialismo pretende di dar vita a una nuova religione che per gli uomini del XIX e XX secolo ebbe lo stesso significato del cristianesimo per gli uomini di due millenni fa”).
Secondo Benjamin, il capitalismo non rappresenta soltanto, come in Weber, una secolarizzazione della fede protestante, ma è esso stesso essenzialmente un fenomeno religioso, che si sviluppa in modo parassitario a partire dal Cristianesimo. Come tale, come religione della modernità, esso è definito da tre caratteri:

1. è una religione cultuale, forse la più estrema e assoluta che sia mai esistita. Tutto in essa ha significato solo in riferimento al compimento di un culto, non rispetto a un dogma o a un’idea.
2. Questo culto è permanente, è “la celebrazione di un culto sans trève et sans merci”. Non è possibile, qui, distinguere tra giorni di festa e giorni lavorativi, ma vi è un unico, ininterrotto giorno di festa-lavoro, in cui il lavoro coincide con la celebrazione del culto.
3. Il culto capitalista non è diretto alla redenzione o all’espiazione di una colpa, ma alla colpa stessa. “Il capitalismo è forse l’unico caso di un culto non espiante, ma colpevolizzante… Una mostruosa coscienza colpevole che non conosce redenzione si trasforma in culto, non per espiare in questo la sua colpa, ma per renderla universale… e per catturare alla fine Dio stesso nella colpa… Dio non è morto, ma è stato incorporato nel destino dell’uomo”.

Proprio perché tende con tutte le sue forze non alla redenzione, ma alla colpa, non alla speranza, ma alla disperazione, il capitalismo come religione non mira alla trasformazione del mondo, ma alla sua distruzione. E il suo dominio è nel nostro tempo così totale, che anche i tre grandi profeti della modernità (Nietzsche, Marx e Freud) cospirano, secondo Benjamin, con esso, sono solidali, in qualche modo, con la religione della disperazione. “Questo passaggio del pianeta uomo attraverso la casa della disperazione nell’assoluta solitudine del suo percorso è l’ethos che definisce Nietzsche. Quest’uomo è il Superuomo, cioè il primo uomo che comincia consapevolmente a realizzare la religione capitalista”. Ma anche la teoria freudiana appartiene al sacerdozio del culto capitalista: “Il rimosso, la rappresentazione peccaminosa… è il capitale, su cui l’inferno dell’inconscio paga gli interessi”. E, in Marx, il capitalismo “con gli interessi semplici e composti, che sono funzione della colpa… si trasforma immediatamente in socialismo”.

3. Proviamo a prendere sul serio e a svolgere l’ipotesi di Benjamin. Se il capitalismo è una religione, come possiamo definirlo in termini di fede? In che cosa crede il capitalismo? E che cosa implica, rispetto a questa fede, la decisione di Nixon? David Flüsser, un grande studioso di scienza delle religioni – esiste anche una disciplina con questo strano nome – stava lavorando sulla parola pistis, che è il termine greco che Gesù e gli apostoli usavano per “fede”. Quel giorno si trovava per caso in una piazza di Atene e a un certo punto, alzando gli occhi, vide scritto a caratteri cubitali davanti a sé Trapeza tes pisteos. Stupefatto per la coincidenza, guardò meglio e dopo pochi secondi si rese conto di trovarsi semplicemente davanti a una banca: trapeza tes pisteos significa in greco “banco di credito”. Ecco qual era il senso della parola pistis, che stava cercando da mesi di capire: pistis, “fede” è semplicemente il credito di cui godiamo presso Dio e di cui la parola di Dio gode presso di noi, dal momento che le crediamo. Per questi Paolo può dire in una famosa definizione che “la fede è sostanza di cose sperate”: essa è ciò che dà realtà e credito a ciò che non esiste ancora, ma in cui crediamo e abbiamo fiducia, in cui abbiamo messo in gioco il nostro credito e la nostra parola. Creditum è il participio passato del verbo latino credere: è ciò in cui crediamo, in cui mettiamo la nostra fede, nel momento in cui stabiliamo una relazione fiduciaria con qualcuno prendendolo sotto la nostra protezione o prestandogli del denaro, affidandoci alla sua protezione o prendendo in prestito del denaro. Nella pistis paolina rivive, cioè, quell’antichissima istituzione indoeuropea che Benveniste ha ricostruito, la “fedeltà personale”: “Colui che detiene la fides messa in lui da un uomo tiene quest’uomo in suo potere…
Nella sua forma primitiva, questa relazione implica una reciprocità: mettere la propria fides in qualcuno procurava, in cambio, la sua garanzia e il suo aiuto”.
Se questo è vero, allora l’ipotesi di Benjamin di uno stretta relazione fra capitalismo e cristianesimo riceve una conferma ulteriore: il capitalismo è una religione interamente fondata sulla fede, è una religione i cui adepti vivono sola fide. E come, secondo Benjamin, il capitalismo è una religione in cui il culto si è emancipato da ogni oggetto e la colpa da ogni peccato e, quindi, da ogni possibile redenzione, così, dal punto di vista della fede, il capitalismo non ha alcun oggetto: crede nel puro fatto di credere, nel puro credito (believes in the pure belief) – cioè: nel denaro. Il capitalismo è, cioè, una religione in cui la fede – il credito – si è sostituita a Dio: detto altrimenti, poiché la forma pura del credito è il denaro, è una religione il cui Dio è il denaro.

Ciò significa che la banca, che non è nient’altro che una macchina per fabbricare e gestire credito (Braudel, 368), ha preso il posto della chiesa e, governando il credito, manipola e gestisce la fede – la scarsa, incerta fiducia – che il nostro tempo ha ancora in se stesso.

4. Che cosa ha significato, per questa religione, la decisione di sospendere la convertibilità in oro? Certamente qualcosa come una chiarificazione del proprio contenuto teologico paragonabile alla distruzione mosaica del vitello d’oro o alla fissazione di un dogma conciliare – in ogni caso, un passo decisivo verso la purificazione e la cristallizzazione della propria fede. Questa – nella forma del denaro e del credito – si emancipa ora da ogni referente esterno, cancella il suo nesso idolatrico con l’oro e si afferma nella sua assolutezza. Il credito è un essere puramente immateriale, la più perfetta parodia di quella pistis che non è che
“sostanza di cose sperate”. La fede – così recitava la celebre definizione della Lettera agli ebrei – è sostanza – ossia, termine tecnico per eccellenza dell’ontologia greca – delle cose sperate. Quel che Paolo intende è che colui che ha fede, che ha messo la sua pistis in Cristo, prende la parola di Cristo come se fosse la cosa, l’essere, la sostanza. Ma è proprio questo “come se” che la parodia della religione capitalista cancella. Il denaro, la nuova pistis, è ora immediatamente e senza residui sostanza. Il carattere distruttivo della religione capitalista, di cui Benjamin parlava, appare qui in piena evidenza. La “cosa sperata” non c’è più, è stata annientata e deve esserlo, perché il denaro è l’essenza stessa della cosa, la sua ousia in senso tecnico. E, in questo modo, viene tolto di mezzo l’ultimo ostacolo alla creazione di un mercato della moneta, alla trasformazione integrale del denaro in merce.

5. Una società la cui religione è il credito, che crede soltanto nel credito, è condannata  a vivere a credito. Robert Kurz ha illustrato la trasformazione del capitalismo ottocentesco, ancora fondato sulla solvenza e sulla diffidenza rispetto al credito, nel capitalismo finanziario contemporaneo. “Per il capitale privato ottocentesco, con i suoi proprietari personali e con i relativi clan familiari, valevano ancora i principi della rispettabilità e della solvenza, alla luce dei quali il sempre maggior ricorso al credito appariva quasi come osceno, come l’inizio della fine. La letteratura d’appendice dell’epoca è piena di storie in cui grandi casate vanno in rovina a causa della loro dipendenza dal credito: in alcuni passi dei Buddenbrook, Thomas Mann ne ha fatto addirittura un tema da premio Nobel. Il capitale produttivo di interessi era naturalmente fin dall’inizio indispensabile per il sistema che si stava formando, ma non aveva ancora una parte decisiva nella riproduzione capitalistica complessiva. Gli affari del capitale ‘fittizio’ erano considerati tipici di un ambiente di imbroglioni e di gente disonesta, al margine del capitalismo vero e proprio… Ancora Henry Ford ha rifiutato per parecchio tempo il ricorso al credito bancario, ostinandosi a voler finanziare i suoi investimenti solo con il proprio capitale” (R.Kurz, La fine della politica e l’apoteosi del denaro, Roma 1997, p.76-77; Die Himmelfahrt des geldes, in “Krisis”, 16,17, 1995).
Nel corso del XIX secolo, questa concezione patriarcale si è completamente dissolta e il capitale aziendale fa oggi ricorso in misura crescente al capitale  monetario, preso in prestito dal sistema bancario. Ciò significa che le aziende, per poter continuare a produrre, devono per così dire ipotecare anticipatamente quantità sempre maggiori del lavoro e della produzione futura. Il capitale produttore di merci si alimenta fittiziamente del proprio futuro. La religione capitalista, coerentemente alle tesi di Benjamin, vive di un continuo indebitamento, che non può né deve essere estinto. Ma non sono soltanto le aziende a vivere, in questo senso, sola fide, a credito (o a debito). Anche gli individui e le famiglie, che vi ricorrono in maniera crescente, sono altrettanto religiosamente impegnati in questo continuo e generalizzato atto di fede sul futuro. E la Banca è il sommo sacerdote che amministra ai fedeli l’unico sacramento della religione capitalista: il credito-debito.

Giorgio Agamben

fonte: Lo Straniero

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La religione del capitale in Walter Benjamin
- Sul frammento incompiuto «Il capitalismo come religione» -
di Clément Homs

Walter Benjamin è autore di un frammento, «Il capitalismo come religione» [*1], che oggi si trova al centro di numerose discussioni sulla questione del feticismo della merce. Qui, ci concentreremo sul fatto che Benjamin in realtà non si appoggia al concetto marxiano di feticismo in quanto tripla inversione reale della realtà, ma sembra piuttosto iscriversi in una continuazione radicalizzata del tema weberiano contenuto ne "L'etica protestante", rimanendo così segnato dal sigillo di una critica che rimane infatuata del «riduzionismo fenomenologico» (Robert Kurz). Anche dopo avere un po' approfondito il famoso capitolo sul carattere di feticcio della merce ne Il Capitale nel corso della preparazione del libro sui Passages, Benjamin mantiene una comprensione tronca - vale a dire, marxista tradizionale - del concetto di feticismo. Nelle poche pagine incompiute del frammento, Benjamin afferma che vi è «una struttura religiosa del capitalismo, non solo, come pensa Weber, di una conformazione religiosamente condizionata [dal calvinismo quindi], bensì di un fenomeno essenzialmente religioso». Benjamin riduce il capitalismo ad una semplice relazione con Dio (una religione idolatra), che si svolge per mezzo di pratiche culturali permanenti (una «religione puramente di culto»; «in essa tutto ha un senso immediato solo in relazione ad un culto»), un culto determinato dalla volontà di un appagamento impossibile di una colpevolezza verso Dio (la religione capitalista come «primo caso di un culto non di espiazione ma colpevolizzante»). In quanto per Benjamin l'analogia avviene veramente al primo grado quando scrive che «dobbiamo vedere nel capitalismo una religione, vale a dire che il capitalismo serve essenzialmente all'appagamento proprio di quelle preoccupazioni, tormenti, inquietudini cui le religioni definite come tali fornivano un tempo una risposta». Poiché ai suoi occhi, il fenomeno religioso non è una questione di dogma, di teologia, «d'interesse "superiore", "morale"», ma è «un interesse pratico, il più immediato». È a questo livello che Benjamin fa del capitalismo un «fenomeno essenzialmente religioso», è un sistema generalizzato di colpevolezza fondato su «l'assenza di una via d'uscita collettiva» spirituale (si tratta della riappropriazione assai veloce fatta da Benjamin - all'inizio degli anni 20 - della tematica weberiana del disincantamento del mondo e del suo essere messo in crisi dalla religione) che genera delle «preoccupazioni», che a loro volta generano disperazione, che spinge poi al culto capitalista colpevolizzante e senza possibilità di «guarigione». C'è qui una teoria piuttosto funzionalista che presuppone la tesi weberiana del mondo disincantato fatto di confusione, di dubbi, d'inquietudine e che non sa dove andare: la religione risponde a queste «preoccupazioni» [*2], attraverso un culto permanente. E di fronte a queste preoccupazioni, «il cristianesimo all'epoca della Riforma non ha favorito l'ascesa del capitalismo, ma si è trasformato in capitalismo». Si vede assai bene il piano trans-storico su cui si pone Benjamin, si tratta di un substrato religioso sempre esistito che muta da cristianesimo a capitalismo in quanto religione. Per rispondere alle «preoccupazioni» determinate di volta in volta in maniera diversa sul piano storico, si opera un trasferimento (transfert) dal Dio trascendente al Dio terrestre, lo spirito passa dalle «sante icone delle diverse religioni» alle «banconote dei diversi Stati». Così lo esprime Benjamin: «questo sistema [il capitalismo] è coinvolto nel crollo di un immenso monumento [e qui fa capire il processo weberiano di disincantamento del mondo]. Un'immensa coscienza della colpa che non sa togliersi questa colpa, fa ricorso al culto non per espiare in esso questa colpa ma per renderla universale, per martellarla nella coscienza e, infine e soprattutto, per includere Dio stesso in questa colpa, e alla fine per interessare lui stesso all'espiazione.» C'è una sorta di dialettica esterno-interno che qui viene implicitamente posta: da un lato abbiamo «un'immensa coscienza della colpa» che sembra a prima vista esterna alla nuova religione capitalista e che «fa ricorso al culto», dall'altro lato questo culto (la religione capitalista) permette di raddoppiare questa «immensa coscienza della colpa» rendendola universale e non espiatrice. È solo qui che Benjamin stabilisce una differenza nella sua struttura trans-storica della funzione del religioso, fra il cristianesimo (per lui, il cattolicesimo) e «il capitalismo in quanto religione» (che poi, in seguito, nel frammento, sviluppa parlando di Nietschze). Ci troviamo nel contesto di due forme correlate di una continuità funzionale. Questa nuova religione capitalista crea dei culti senza dogmi, costituisce un sostituto della religione nel mondo senza religione, è un incantamento che si iscrive nel disincatamento weberiano. È un disincantamento che lascia il posto alla fantasmagoria della merce.

A differenza di Michael Lowy, il quale pensa che «negli scritti di Benjamin degli anni 1930, soprattutto il Libro dei Passages, la problematica del capitalismo come religione viene sostituita dalla critica del feticismo della merce, e dal capitale visto come struttura mitica« [3], a me sembra che vada troppo in là, in quanto anche negli anni 1930 il concetto marxiano di feticismo non viene ben compreso da Walter Benjamin - in un certo senso sempre molto fenomenologico e tronco -, e di certo non è in nessun modo una «struttura mitica«come afferma Lowy senza rimproverarlo per questo. Il problema generale consiste nel fatto che il concetto di feticismo di Marz - quanto meno nel primo capitolo del Libro I del Capitale [4] - è un po' più complesso e si colloca, come dice Robert Kurz, ad un livello di astrazione più profondo rispetto al piano in cui situa Benjamin. Il capitolo 5 del libro di Lowy, "La Gabbia di Acciaio. Marx Weber ed il marxismo weberiano", si intitola: «il capitalismo come religione: Ernst Bloch, Walter Bejamin ed Erich Fromm lettori di Marx Weber", e sarebbe interessante tornarci sopra. Lowy, come avviene sovente on Benjamin quando parla di "adoratori", sembra però rinviare il concetto marxiano di feticismo «alle forme primitive dell'idolatria» come gli rimprovera Antoine Artous in "Il Feticismo in Marx", cosa in cui ha ragione, ma a condizione che si concepisca il livello più profondo di feticismo come inversione reale e non come semplice rappresentazione rovesciata della realtà (in cui sembra ricadere lo stesso Artous [5]).
A differenza di Michael Lowy, il quale pensa che «negli scritti di Benjamin degli anni 1930, soprattutto il Libro dei Passages, la problematica del capitalismo come religione viene sostituita dalla critica del feticismo della merce, e dal capitale visto come struttura mitica« [3], a me sembra che vada troppo in là, in quanto anche negli anni 1930 il concetto marxiano di feticismo non viene ben compreso da Walter Benjamin - in un certo senso sempre molto fenomenologico e tronco -, e di certo non è in nessun modo una «struttura mitica«come afferma Lowy senza rimproverarlo per questo. Il problema generale consiste nel fatto che il concetto di feticismo di Marz - quanto meno nel primo capitolo del Libro I ded Capitale [4] - è un po' più complesso e si colloca, come dice Robert Kurz, ad un livello di astrazione più profondo rispetto al piano in cui situa Benjamin. Il capitolo 5 del libro di Lowy, "La Gabbia di Acciaio. Marx Weber ed il marxismo weberiano", si intitola: «il capitalismo come religione: Ernst Bloch, Walter Bejamin ed Erich Fromm lettori di Marx Weber", e sarebbe interessante tornarci sopra. Lowy, come avviene sovente on Benjamin quando parla di "adoratori", sembra però rinviare il concetto marxiano di feticismo «alle forme primitive dell'idolatria» come gli rimprovera Antoine Artous in "Il Feticismo in Marx", cosa in cui ha ragione, ma a condizione che si concepisca il livello più profondo di feticismo come inversione reale e non come semplice rappresentazione rovesciata della realtà (in cui sembra ricadere lo stesso Artous [5]).
Il concetto di "fantasmagoria" abbozzato da Benjamin in "Parigi, capitale del XIX secolo", e che è in ogni caso senza un rapporto preciso con l'uso che ne fa Marx di questo termine nella sua teoria del feticismo quando afferma che il valore è una "fantasmagoria».
Per mezzo del suo progetto di «rapportare gli oggetti del libro [...] a quel che Marx chiama il carettere di feticcio della merce», il fraintendimento benjaminiano attiene al fatto che il concetto di fantasmagoria che egli non smette di usare non designa affatto ciò che Marx chiamava il carattere di feticcio della merce.
In Benjamin, la merce come fantasmagoria non è altro che la la superficie della proiezioni di un mito (Horkheimer parlerà di «mitologizzazione, di un'elevazione al rango di divinità  naturale; le legge del mercato non sono solamente il giorno, la notte ed il tuono [allusione alla personificazione delle divinità] dell'epoca vittoriana, bensì la moira, il destino puro e semplice», Note critiche, 2009, p.39), di un sogno ad occhi aperti, di un'illusione, di un'adorazione, la fantasmagoria è una chimera, una rappresentazione nebulosa che passa per essere realtà, iscrivendosi soprattutto nel quadro di un mondo immaginario del capitalismo [6].
Walter Benjamin appiattisce impoverendolo il concetto marxiano di feticismo pensando che i rapporti sociali di lavoro si riflettano nei caratteri oggettivati, reificati dai prodotti del lavoro - dalle merci - sotto forma di una "fantasmagoria", ma percepiti ancora come una semplice illusione, un'esca, un inganno, delle «immagini magiche del secolo» (Benjamin), una semplice rappresentazione materializzata da queste sotto forma di apparizione nelle vetrine, nei passages, nelle esposizioni universali.
Senza volere, e senza troppo vedere il problema, Marc Berdet riprende anch'egli l'equivoco di Benjamin, nel momento in cui prende letteralmente il feticismo come se fosse uno spettacolo della fantasmagoria così come esisteva all'inizio dell'ottocento (con il fantascopio), dove però stavolta « le fantasmagorie capitaliste, [appaiono come] la fonte di un intrattenimento mitologico grazie ai dispositivi più moderni che distraggono l'uomo dai supporti concreti della sua esistenza oggettiva«. Qui, «la fantasmagoria [vale a dire, ciò che anima il dispositivo] [è] il borghese, dal momento che sono i lavoratori la clientela di questo genere di spettacolo» [7]. Per Benjamin, il feticismo - nota Susan Buck-Morss, senza riuscire nemmeno lei a percepire l'equivoco - è una falsa coscienza illusoria, un'incoscienza collettiva per mezzo della quale la realtà assume la forma distorta del sogno [...].
Benjamin scommette sulla forza esplosiva delle immagini dialettiche per fare emergere l'individuo dal stato di sogno. [...], perché a suo avviso «le immagini percepite sono simboli dei sogni » [8].
Nel capitolo X «Marx» del Libro sui Passages, ben presto si vede che Benjamin dipende dall'interpretazione tronca del feticismo fatta da Karl Korsch, che viene abbondantemente citato [9] (il primo commentatore davvero interessante riguardo a tale tematica è Isaak Roubine nel 1923).
Rolf Tiedemann, che ha raccolto e curato l'opera sui Passages, si è reso conto della teoria marxiana del feticismo della merce (mera "sovrastruttura culturale del XIX secolo in Francia" [10].
Fra l'altro commenta il seguente passaggio: «la proprietà che si lega alla merce per conferirle il suo carattere di feticcio, appartiene alla società produttrice di merci essa stessa, non in quanto tale, ma in quanto si presenta e si crede di comprendere astraendo dal fatto che essa produce delle merci» [11].
«Non è tanto la posizione di Marx - continua Tiedermann - in quanto, al contrario, il carattere feticista della merce consiste nel fatto che il carattere del loro lavoro appare agli uomini come fosse, "dei rapporti oggettivi fra persone e come dei rapporti sociali fra cose"; L'equivoco circa il feticismo della merce appare nell'analisi del capitale come un errore oggettivo e non come una fantasmagoria. Marx sarebbe stato obbligato a rifiutare l'idea per cui la società produttrice di merci potesse fare astrazione del fatto che essa produce merci cessando di produrre merci, e quindi passando ad un grado superiore di formazione sociale. Non è affatto difficile dimostrare che Benjamin fraintende la teoria di Marx» (R. Tiedemann, p. 23). Si rimane nel concetto tronco di feticismo - come in una semplice rappresentazione rovesciata di una "vera realtà" - così come è stato compresa in maniera superficiale dal marxismo tradizionale, quando non viene addirittura ignorato. Se vogliamo "salvare Benjamin" si può cercare di dire che la sua riflessione si situa su un altro piano di astrazione rispetto a quello di Marx, più superficiale e fenomenale - e potremmo dire che si interessa soprattutto all'espressione visuale che assume il feticismo. Ma la sua comprensione del feticismo è talmente limitata, che sarebbe meglio gettare via il bambino insieme all'acqua sporca! - nella migliore delle ipotesi il lavoro consisterebbe nel "détourner" le anali di Benjamin per rimetterle sui loro piedi.

- Clément Homs -

 NOTE

[1] Nouvelle traduction du fragment dans W. Benjamin, Critique et utopie, Payot et Rivages, 2012, pp. 39-44.

[2] A tal proposito, W. Benjamin non ci dice a sufficienza – evidentemente si tratta di semplici note - ma nello stesso frammento si può leggere : «Le preoccupazioni: una malattia dello spirito che è propria dell’epoca capitalistica. Assenza spirituale (non materiale) di via d’uscita nella povertà, monachesimo – vaganti – mendicanti. Uno stato che è così privo di via d’uscita e colpevolizzante. Le “preoccupazioni” sono l’indice di questa coscienza della colpa dell’assenza di via d’uscita. “Preoccupazioni” insorgono nell’angoscia dell’assenza di via d’uscita commisurata alla comunità, non in quella individuale-materiale » (p. 43). 

[3] M. Lowy, La cage d’acier, p. 146. continua così: «vi sono delle affinità fra i due approcci – ad esempio nel loro riferirsi a degli aspetti religiosi dei sistema capitalista-, le differenze non sono meno evidenti: il quadro teorico è diventato chiaramente quello del marxismo».

[4] È vero che nel III libro del capitale, Marx parla di feticismo ad un livello più fenomenologico, diverso dal livello che viene evocato nel I libro.

[5] A tal proposito, vedi il commento di Anselm Jappe in «Aliénation, réification et fétichisme de la marchandise», op. cit., p. 78. Vedi anche A. Artous, «Le fétichisme chez Marx», Syllepse, 2006, in particolare « Religion, aliénation, fétichisme », p. 49-50.

[6] Jean-Marie Vincent difende W. Benjamin nei termini seguenti : «In tal senso, si può considerare particolarmente significativa ed illuminante l'analisi sulla fantasmagoria della merce laddove affronta ed ampia gli sviluppi marxiani sul feticismo della merce nel I libro del Capitale. [...]  Benjamin, da parte sua, tenta di andare più lontano nell'analizzare da un lato il feticismo in quanto legato a dei processi di incantamento, e dall'altro lato la merce come rapporto sociale in quanto prodotto materiale. C'è una fantasmogaria nella misura in cui la merce è trasfigurata e brilla in maniera ambigua come un processo che viene allo stesso tempo diretto, e non diretto. In effetti, ma merce affascina, perché gli uomini proiettano su di essa delle immagini e delle forzr mitiche che propengono da sogni ad occhi aperti. Potremmo dire che Benjamin si sia avventurato su un terreno pericoloso, quello di una visione psicologizzante, perfino ipnotica, del feticismo. Non c'è niente che spieghi la fantasmagoria della merce attraverso la perdita o la riduzione dell'esperienza nella società capitalista e attraverso la modernità. Nei rapporti magici o religiosi del mondo [nelle società premoderne], c'era grande abbondanza di manifestazioni mimetiche, di basarsi su relazioni analogiche, di cercare corrispondenze fra gli uomini ed il loro ambiente. Il linguaggio stesso, nei suoi aspetti poetici, anch'esso moltiplicava le costruzioni analogiche sensibili e soprasensibili, in una continua drammaticità. Ora, tutto questo viene profondamente colpito dalla razionalizzazione capitalsita, viene polarizzato dalla valorizzazione del capitale e dalle modalità del calcolo economico e dalla produzione di conoscenza che ne deriva. Il disincanto diventa pertanto depoetizzazione del mondo, e quello che Benjamin chiama "il potere mimetico (cfr. Das Mimetische Vermogen in Schriften I, p. 507, 510) cerca di sottomettere i loro modi ed ha come conseguenza delle pessime condizioni che investono il mondo della merce e del valore» (in "Max Weber ou la démocratie inachevée, op. cit., p. 233-234.)

[7]Marc Berdet, « La relation base-superstructure chez Walter Benjamin. L’exemple de Grandville », p.4, Congrès international Marx actuel, 2007 : http://actuelmarx.u-paris10.fr/indexc.htm>

[8] Susan Buck-Morss, vedi Il Capitale, op. cit., p. 67.

[9] Benjamin riprende la seguente citazione di Korsch : « Korsch definisce il plusvalore come "la forma particolarmente bizzarra" che assume il feticismo della merce, come "merce forza lavoro"» (K. Korsch, Karl Marx, secondo manoscritto, p. 53, citato da Benjamin, "Parigi, capitale del XIX secolo, op. cit, p. 676), vedi anche la terza citazione della pagina 678. Benjamin riferisce questa citazione di Adorno in cui il feticismo dev'essere ancora concepito come rappresentazione rovesciata della realtà vera: « Wisengrund la [la merce] definisce "come un bene di consumo che non deve più ricordare in alcun modo com'è venuto a nascere. Esso è oggetto di un'operazione magica per mezzo della quale il lavoro in esso accumulato appare come soprannaturale e sacro nel momento stesso in cui non deve più essere percepito come lavoro» (T.W. Adorno, ‘‘Fragmente über Wagner’’, Zeitschrift für Socialforschung, VII, 1939, 1-2, p. 17) »

[10] Introduzione de Rolf Tiedemann, in "Walter Benjamin, Paris, capitale du XIXe siècle. Le Livre des Passages", Les éditions du Cerf, 1989, p. 21.

[11] W. Benjamin, op. cit., p. 683. 


fonte:  Critique de la valeur-dissociation. Repenser une théorie critique du capitalisme

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