martedì 24 gennaio 2017

Non disturbate il pubblico occidentale!

enzensberger_0

L'economia dell'autodistruzione: La globalizzazione e "l'incapacità di sfruttamento" del capitale

di Robert Kurz

Hans Magnus Enzensberger ha tentato, seguendo il pensiero di Hannah Arendt, di descrivere il denominatore comune di sacrificio che caratterizza le guerre civili della nuova epoca di crisi, sia quelle generalizzate a tutto un territorio che quelle "molecolari". Quel che salta ripetutamente all'occhio è, da un lato, il carattere autistico degli autori degli atti di violenza e, dall'altro lato, la loro incapacità di distinguere fra distruzione ed autodistruzione. Nelle guerre civili contemporanee, è sparito qualsiasi tipo di legittimazione[...] L'unica conclusione possibile è che l'auto-mutilazione collettiva non costituisce un effetto collaterale accettato come inevitabile, ma costituisce piuttosto l'obiettivo propriamente detto. I combattenti sanno assai bene che possono solamente perdere, che non c'è alcuna possibilità di vittoria. Fanno tutto quel che possono per aggravare al massimo grado la loro situazione. Non vogliono trasformare in "razzumaglia" soltanto gli altri, vogliono fare la stessa cosa anche con sé stessi. Un funzionario della sicurezza sociale dice a proposito delle banlieue parigine: «Hanno distrutto tutto, le cassette della posta, le porte, le scale. Hanno vandalizzato e saccheggiato il policlinico, dove i loro fratellini appena nati avevano ricevuto cure gratuite. Non riconoscono alcun tipo di regola. Riducono in macerie ambulatori medici e dentistici e distruggono le loro stesse scuole. Se gli costruite un campo di calcio, segano i pali delle porte». Le immagini delle guerre civili, sia di quelle molecolari che di quelle macroscopiche, si assomigliano tutte fin nel minimo dettaglio. Un testimone oculare racconta cosa ha visto a Mogadiscio. La persona in questione ha potuto assistere alla distruzione di un ospedale da parte di un gruppo di uomini armati. Non si trattava di un'azione militare. Nessuno minacciava quegli uomini; non si udivano spari nella città. L'ospedale si trovava già gravemente danneggiato ed era fornito solo dei mezzi essenziali. I rivoltosi hanno agito con una violenza meticolosa. Hanno sventrato i materassi dei letti, hanno rotto le bottiglie che contenevano plasma sanguigno e medicine; poi, gli uomini armati, nelle loro sudicie mimetiche, si sono occupati delle poche apparecchiature esistenti. Si sono ritenuti soddisfatti solo dopo avere reso inutilizzabili l'unico apparecchio per i raggi X , lo sterilizzatore e la macchina per l'ossigeno. Ciascuno di questi zombie sapeva benissimo che la guerra sarebbe continuata; tutti loro erano consapevoli del fatto che le loro vite continuavano a dipendere dall'esistenza di un medico che li potesse curare, ma, a quanto pare, volevano distruggere ogni benché minima ipotesi di sopravvivenza. Tutto questo potrebbe essere definito come "reductio ad insanitatem". Nell'amok colletivo, la categoria futuro è scomparsa. Esiste solo il presente. Smettono di esistere le conseguenze. L'elemento che regola l'autoconservazione è stato disattivato»  (Enzensberger 1993, p. 20, 31 ss.).

La descrizione è accurata, i fatti vengono analizzati con arguzia, e non manca neppure la sottolineatura fatta attraverso la caratterizzazione sessuale dei criminali. Ma, così come accade, sebbene in maniera differente, con Hannah Arendt, anche Enzensberger non va al fondo del problema. È evidente lo sforzo fatto per delimitare in qualche modo la fenomenologia dell'horror della perdita di sé e dell'autodistruzione vista come qualcosa di estraneo e di esterno, di modo da escludere, così, il proprio mondo del quotidiano, e non avere niente a che fare con l'assunto. Ma anche così, Enzesberger continua a riferirsi (sebbene lo faccia, innanzitutto, come se si trattasse di qualcosa di accessorio) alla connessione sociale esterna fra la globalizzazione capitalista, le nuove guerre civili ed i protagonisti degli oltraggi: «Non c'è dubbio che il mercato mondiale, dal momento che ha smesso di essere una visione del futuro per diventare una realtà globale, ogni anno che passa produce sempre meno vincitori e sempre più perdenti, e non solo nel Secondo e nel Terzo Mondo, ma anche nei paesi centrali del capitalismo. Se perfino paesi, e addirittura continenti interi, finiscono per vedersi esclusi dalle relazioni internazionali di scambio, qui vediamo aggravarsi a vista d'occhio la situazione per cui abbiamo parti crescenti della popolazione che smettono di essere in grado di partecipare alla concorrenza delle qualifiche» (Enzensberger, ibidem, p. 39).

È ovvio che questo realismo dei fatti, a prima vista, si distingue piacevolmente dal falso ottimismo professionale della retorica ufficiale delle "opportunità", rappresentata dall'economia politica accademica o dagli spin doctor del New Labor e del "nuovo centro". Ma  Enzensberger rigira il riconoscimento dei fatti negativi in un voltafaccia affermativo; il potenziale socialmente distruttivo della globalizzazione capitalista si converte miracolosamente in una miserabile apologetica dell'Occidente: «Tuttavia, le conseguenze politiche previste dai teorici marxisti non si sono verificate[...] Gli sconfitti, lungi dall'unirsi sotto uno stendardo comune, lavorano alla loro autodistruzione, ed il capitale ogni volta che può si ritira dagli scenari di guerra. In questo senso è necessario porre un freno alla convinzione radicata che le relazioni di sfruttamento possono essere ridotte ad un mero problema di distribuzione, come se si trattasse di una divisione equa o iniqua di una determinata torta [...] Si ricorre (a questo luogo comune) soprattutto affermando che "noi" viviamo a spese del Terzo Mondo; cioè, si presume che siamo ricchi, perché noi, i paesi industrializzati, li sfruttiamo. Chi si batte il petto a questa maniera, deve avere un rapporto perturbato con i fatti. Basta riferirsi ad un solo indicatore: la quota dell'Africa nelle esportazioni mondiali è di circa l'1,3%, e quella dell'America Latina è del 4,3%. Gli economisti che si occupano della questione, ritengono che se le regioni più povere sparissero dalle mappe, la popolazione dei paesi più ricchi non se ne accorgerebbe nemmeno [...] Le teorie che spiegano la povertà dei poveri basandosi solo su fattori esterni, non solo alimentano a buon mercato l'indignazione morale, ma hanno anche un altro vantaggio: assolvono i governanti del mondo povero, imputando all'Occidente l'esclusiva responsabilità della miseria [...] Dagli africani che si sono accorti di questo trucco, abbiamo sentito dire, pertanto, che esiste solo una cosa peggiore dell'essere sfruttati dalle multinazionali, ossia, non essere sfruttati da esse [...]»  (Enzensberger, ibidem, pp. 40s.).

Enzensberger cerca di eludere la questione, proiettando la problematica del nuovo capitalismo di crisi universale, del limite interno assoluto del modo di produzione e di vita capitalistica diventato planetario, sulla trascorsa linea ascendente del capitalismo, sulla storia della sua imposizione e delle sue lotte interne. In questo senso, il conflitto centrale è stato di fatto la cosiddetta lotta di classe che, tuttavia, per sua essenza e natura, non è stata altro che la "lotta per il riconoscimento" del lavoro salariato nelle forme giuridiche e politiche del capitale (ivi inclusa la relazione capitalistica fra i sessi) e, in secondo luogo, è stata lotta economica per la distribuzione delle "quote" all'interno del movimento di valorizzazione del capitale.

In entrambi i casi si trattava di lotte dei soggetti costituiti in maniera capitalistica, all'interno delle forme del sistema produttore di merci, le quali non venivano minimamente messe in discussione. In altre parole: si trattava di un conflitto sociale "immanente" che, proprio grazie al continuo movimento di ascesa e di espansione della forma capitalista, si è potuto sviluppare nella "gabbia di ferro" (Max Weber) di questa forma, senza andare al di là di essa; ossia, non era (ancora) precisamente una "immanenza" che, a causa della stessa dinamica di crisi interna del sistema mondiale, veniva spinta oltre i limiti del sistema stesso, ed era così costretta a rompere tale "gabbia di ferro" (ed insieme ad essa la forma stessa del soggetto).
Il fatto per cui la "lotta di classe" - che rimane nell'ambito dell'immanenza - non può più aver luogo sul nuovo terreno di crisi, per Enzensberger diventa l'argomento che gli permette di eludere il problema della forma delle relazioni sociali e della forma del soggetto, invece di riconoscerne il limite, la crisi e l'insostenibilità di tale forma. Ma dal momento che la "lotta di classe non può più aver luogo all'interno delle categorie borghesi, perché sono soprattutto gli sconfitti di sesso maschile (e non solo gli sconfitti ben noti) a lavorare solo alla propria autodistruzione?
Proprio perché ormai all'interno delle forme categoriali della modernità produttrice di merci non avviene più nessun sviluppo sostenibile, perché non si può più avere una prospettiva civilizzatrice, neppure illusoria.
Ma, dopo tutto, che significa il fatto che parti sempre più grandi della popolazione mondiale non possono più nemmeno essere sfruttati, diventando così superflui, e interi continenti spariscono quasi del tutto dalle mappe dell'economia del capitale?
Avviene che la forma capitalista, la forma sociale della modernità, vale a dire, lo stesso sistema produttore di merci diventa incapace di riprodursi per la maggioranza globale (e, alla fine, per tutti); e in tal modo si impone la critica ed il superamento di quella gabbia in cui la defunta "lotta di classe" poteva ancora muoversi.

Tuttavia, Enzensberger trasforma il fatto per cui le persone "non vengono più nemmeno sfruttate" in un argomento assurdo a favore del capitalismo, o del centro occidentale del capitalismo. Il fatto che in realtà non si tratta di un mero problema di distribuzione all'interno della forma della ricchezza prodotta nel capitalismo, diventa per lui una giustificazione di tale forma, il che ovviamente non vuol dire altro se non che la vede come una condizione ontologica inevitabile dell'esistenza umana in generale, anziché come una formazione storica limitata nel tempo. Tuttavia, la povertà dei poveri non può essere ridotta soltanto a "fattori esterni" (questo è stato il paradigma erroneo e riduttivo dei movimenti di liberazione nazionale meramente anticoloniali del passato) nella misura in cui il capitalismo si è trasformato, da una relazione coloniale fra il centro e la periferia, in un sistema mondiale immediato negativamente universale, che ha smesso di essere un "esterno".

Nelle condizioni della terza rivoluzione industriale, che di questa immediatezza del mercato mondiale ne ha fatto una realtà, le forze produttive ed i mezzi di produzione della maggior parte del mondo sono paralizzati per mancanza di redditività in termini di economia imprenditoriale, ma senza che le persone vengano esentate anche dalla forma capitalista (che da tempo costituisce anche la loro forma interiore di soggetto), dal momento che questa forma di soggetto subisce anche da sempre il peso della moderna relazione fra i sessi, ossia, è sessualmente modificata.

Dove non vengono puramente e semplicemente dismessi, i mezzi di produzione (non da ultime, i terreni agricoli fertili) subiscono un reindirizzamento forzato verso il mercato mondiale universale, il che significa, ad esempio, nell'ambito del settore agroalimentare, una produzione poco esigente in termini di prodotti ad alta tecnologia di beni di lusso come mazzi di fiori o alimenti selezionati per i centri occidentali, con la popolazione locale che viene espulsa dalle sue terre e viene privata delle sue risorse vitali, e che non può (o non può più) essere rappresentata nella forma del valore economico, senza poter essere integrata nella produzione per il mercato mondiale sul nuovo piano delle forze produttive, nemmeno in maniera meramente repressiva come "manodopera".

È un fatto che i flussi di merci e di denaro, per mezzo dei quali viene rappresentata la produzione agraria marginalizzata o le situazioni specifiche di sfruttamento salariale a buon mercato, hanno una dimensione trascurabile a fronte della totalità del prodotto globale e, soprattutto, di fronte al volume del capitale finanziario vuoto di contenuto; ma è proprio in questa dimensione relativamente microscopica di creazione di ricchezza "valida" a livello mondiale che sparisce la vita di enormi masse di popolazioni di "superflui". La ricchezza (essa stessa, solo astratta e distruttiva) dei paesi centrali dell'Occidente non dipende dalla massa di mazzi di fiori a buon mercato, provenienti dalla Colombia o dall'Africa centrale, che vengono spediti per via aerea nelle metropoli; ma è per tale mezza dozzina di fiori in mazzi che intere popolazioni vengono sacrificate socialmente, proprio perché l'esistenza nell'ambito del mercato mondiale è stabilita in maniera ferrea come unica forma possibile di esistenza.

L'argomentazione di Enzensberger è chiaramente apologetica, e non c'è nessuno che sappia farlo meglio di lui. A quanto pare, ha deciso di convertire in cinismo quella che è un'impotenza senza prospettive. A partire dalla problematica storicamente concreta, accampa presunte inevitabilità antropologiche, e si trincera in un esistenzialismo e in un nichilismo astorico: «In questa situazione, le vecchie questioni antropologiche si pongono in una forma nuova» (ivi, p.11). Proseguendo, a proposito della forma qualitativamente nuova dell'annichilimento degli indifesi, il discorso diventa meschinamente autistico e parla di una «accumulazione di energia della gioventù, indotta dai livelli del testosterone» (ivi, p.22). In questo modo, la relazione fra forma moderna del soggetto e la relazione moderna fra i sessi, nel limite della crisi globale, non viene tematizzata criticamente, ma è antropologizzata ideologicamente, in modo da non dover affrontare questa stessa crisi. Come "veri colpevoli", si profilano allora i barbari «che governano il mondo povero» (ivi, p.41) ecc.. L'Occidente, il centro della forma universale della relazione di capitale che distrugge il mondo, dev'essere dichiarato non responsabile del suo proprio sistema mondiale, in quanto il pubblico occidentale non dev'essere disturbato con le «motivazioni incomprensibili» (iv, p.78) delle folli fazioni assassine di questa o di quella regione esotica.

L'eurocentrismo positivo della competenza universale occidentale nel nome dell'universalismo astratto, che era sinonimo della possibilità dello sfruttamento capitalista del mondo, in Enzensberger si converte in un eurocentrismo negativo dell'ignoranza, che si sforza di esteriorizzare ed enfatizzare le catastrofi all'interno del sistema mondiale, proprio perché questo mondo diventa non sfruttabile con i mezzi capitalisti. L'addio alle «fantasie di onnipotenza morale» (iv, p.86) si converte così nella vecchia saggezza anchilosata di una politica di campanile: «Tuttavia, tutte le persone sanno che, innanzitutto, si devono occupare dei loro figli, dei loro vicini, di tutto quello che immediatamente le circonda» (ivi, p.87). Tutto ciò costituisce nient'altro che la versione invertita della politica occidentale di intervento militare, ma non è una critica delle relazioni che si trovano alla sua base. Cos', Enzensberger, può essere accusato da un filosofo interventista come André Glucksmann di «sfuggire alle responsabilità», consistendo le responsabilità, per Glucksmann, nel bombardare le zone di crisi incontrollabili.

In un modo o nell'altro, non sembra esserci all'ordine del giorno una critica allargata, che miri alla forma del sistema moderno e della sua soggettività, bensì, come pensa Enzensberger, la "valutazione", la scelta dell'emergenza in quanto «posizione forzata» (ivi, p.88 s.), soggetta alle condizioni esistenziali ontologiche inalterabili del sistema produttore di merci. «Ciò che dovrà avvenire dell'Angola dovrà essere deciso, in primo luogo, dagli angolani» (ivi, p.90) - come se la globalizzazione non rendesse le bande assassine angolane "vicini" immediati delle bande di assassini giovanili tedesche di "Hoyerswerda e Rostock, Mölln e Solingen" (ibidem, p. 90). L'«interno» universale non si lascia esternalizzare e particolarizzare.

- Robert Kurz - dal 2° capitolo de "La guerra di ordinamento mondiale" - Gennaio 2003 -

fonte: EXIT!

Nessun commento: