lunedì 7 novembre 2016

Si spengono le luci

FinePolitica

La fine della politica
- Tesi sulla crisi del sistema di regolazione della forma-merce -
di Robert Kurz

- I -

   L'autocoscienza della modernità, sviluppatasi in Occidente, ha sistematicamente destoricizzato e ontologizzato, fin dall'illuminismo, le proprie forme di socializzazione e i rispettivi concetti. Nella storia della modernizzazione, questo vale per tutte le correnti, anche per quelle di sinistra e quelle marxiste. La falsa ontologizzazione si riferisce, non da ultimo, ai concetti base di "economia" e "politica". Invece di riconoscere che questa coppia di concetti polari è specifica della modernità basata sulla produzione di merci, essa viene attribuita a tutte le società premoderne (e future) come un presupposto cieco, considerandola parte dell'essenza umana in quanto tale. La scienza storica si chiede allora quale aspetto abbiano avuto l'"economia" e la "politica" presso i Sumeri, nell'antico Egitto o nel cosiddetto Medioevo. In questo modo, diventa del tutto impossibile comprendere non solo le società premoderne, ma anche la propria, quella moderna.

Le società premoderne avevano un "ricambio organico con la natura"(Marx), ma nessuna "economia"; avevano conflitti interni ed esterni, ma nessuna "politica". Perfino nella tradizione e nella storia occidentale in cui sono nati, questi termini significavano originariamente qualcosa di sostanzialmente diverso da oggi, anzi quasi il contrario. Non esisteva una distinta sfera "economica" della società, tanto meno in posizione dominante; neanche esistevano, dunque, "criteri economici": distinguerli analiticamente e ipotizzarne la preminenza è un'operazione post festum della coscienza moderna, che di per sé ostacola la comprensione della natura delle formazioni storiche indagate. Logicamente non esisteva neppure una sfera "politica" differenziata, tanto meno in posizione complementare all'economia; neppure esistevano, dunque, "criteri politici" autonomi. Gli affari comuni si basavano su ben altri criteri. Questa situazione non può venir descritta nemmeno con i concetti moderni di "pubblico" e "privato"; molto del supposto "pubblico" premoderno era, nel nostro senso, "privato", e viceversa.

Il problema si può risolvere dicendo che abbiamo a che fare con forme sostanzialmente diverse dell'universalità sociale. La "universalità astratta" delle società premoderne, cioè delle culture agrarie avanzate, era determinata essenzialmente da un sistema feticistico, i cui resti vengono oggi chiamati "religione". Ma nel suo senso moderno, questo termine indica già una sfera differenziata (marginalmente complementare alle sfere di "economia" e "politica"), mentre l'elemento religioso nelle società premoderne comprendeva la riproduzione della vita stessa. Anche se per una coscienza moderna ciò suona come un puro paradosso, bisognerebbe dire che la religione includeva in sé l'"economia" e la "politica", sicché non poteva essere una "religione" in senso moderno (differenziato). La religione non era una "sovrastruttura ideologica", ma una forma basilare di mediazione e di riproduzione, nel ricambio con la natura così come nei rapporti sociali. Il che non significa, naturalmente, che si viveva di manna celeste. Fintanto che la società non ha coscienza di sé stessa, il processo di appropriazione della natura deve però, in quanto umano-sociale, passare per un sistema di codificazioni simboliche ciecamente presupposto. Mancando di autocoscienza, l'uomo, largamente avulso dai codici genetici, ha bisogno di una forma sociale di universalità astratta per poter agire in quanto soggetto. La costituzione inconsapevole di una tale universalità astratta può essere chiamata (seguendo Marx) feticismo.

Le costituzioni storiche feticistiche sono però numerose; la loro successione (se è possibile parlare in questi termini) dà luogo a una meta-storia e non può venire spiegata né con lo schema struttura/sovrastruttura, né con l'opposizione tra materialismo e idealismo. Lo stesso "materialismo storico" di Marx cade qui in una falsa ontologizzazione di problematiche specificamente moderne. Concetti economici come "plusprodotto" o "modo di produzione agrario" non possono essere posti come la causa, o la base, di quella universalità astratta premoderna che ha forma di religione; così come, d'altronde, la specifica universalità astratta della modernità può essere altrettanto poco dedotta dalla pura e semplice materialità delle forze produttive industriali. In entrambi i casi abbiamo a che fare con (differenti) codificazioni simboliche feticistiche che non è possibile determinare immediatamente in termini "materiali", ma che rappresentano sempre anche un rapporto con la natura in cui emergono sia elementi "materiali" che "ideali".

Diversamente dall'epoca premoderna, in cui predomina la forma religiosa, l'universalità astratta nelle società moderne è determinata dalla forma-merce. La moderna costituzione feticistica non è più la costituzione religiosa della società, ma qualcosa di completamente diverso: è merce e denaro, denaro che viene capitalizzato "produttivamente", fondando così una nuova forma dell'universalità sociale. Questa novità non viene sminuita dal fatto che anche nelle società premoderne sono esistiti la merce e il denaro, o, detto più cautamente, che in tali forme sono riconoscibili simili relazioni di scambio. Ma non è solo nell'aspetto di queste forme, oggi definite "economiche", che si è prodotto un fondamentale cambiamento nella modernità a causa della capitalizzazione "produttiva" (comprendente la relazione con la natura) del denaro: è decisamente mutato anche il peso di queste forme nella codificazione simbolica della riproduzione sociale. Mentre nelle società premoderne merce e denaro rimanevano un elemento marginale all'interno dell'universalità sociale determinata dalla religione, nella modernità, all'inverso, è la religione a costituire un elemento marginale nell'universalità sociale determinata da merce e denaro (che perciò, a paragone dell'altra, appare "secolarizzata"). Le tappe del processo di trasformazione da uno stato feticistico al successivo possono essere ricostruite storicamente.

Tutte le formazioni sociali costituite feticisticamente, cioè basate sulla mancanza di autocoscienza e sulle "leggi di riproduzione" sociali di una "seconda natura", create ciecamente, contengono necessariamente un tratto di dualismo assurdo e di "schizofrenia" strutturale. Infatti, la scissione della coscienza umana in una relativa consapevolezza rispetto alla "prima natura" da una parte, e in una mancanza di consapevolezza di fronte alla costituzione della propria "seconda natura" sociale e storica dall'altra parte, deve mostrarsi nelle espressioni, azioni, istituzioni, riflessioni ecc. del "soggetto" emerso da questa contraddizione. La schizofrenia strutturale è però molto più pronunciata nella modernità, basata sulla produzione di merci, che nelle culture avanzate premoderne (ed è solo così che diventa riconoscibile). La ragione di ciò sta nella qualità specifica della forma-merce sociale, che genera una differenziazione molto più forte che non la costituzione religiosa delle società feticistiche premoderne.

L'antica costituzione religiosa permeava immediatamente tutti gli aspetti della vita, tenendo unita la società tramite un insieme di tradizione fissate e mutabili solo con difficoltà e lentamente. Il fatto che la religione determinasse alla radice il codice sociale (a differenza della "religione" di oggi) era immediatamente presente in tutto; si trattava di una forma diffusa di universalità astratta che era stesa come una foschia sulla coscienza sociale. Ogni cosa doveva essere giustificata in modo immediatamente religioso. Proprio questa diffusa immediatezza della costituzione religiosa le conferiva tuttavia anche l'aspetto di una superficiale varietà; l'involucro superficiale dell'universalità astratta stava per così dire largo (per esempio sotto forma di formazioni para-statali), il che non contraddice affatto il carattere profondamente radicato della "seconda natura" in quanto tale.

Invece, la costituzione moderna in forma di merce non sembra immediatamente una totalità, ma è mediata da sfere differenziate e, all'apparenza, reciprocamente indipendenti (un campo privilegiato di analisi descrittiva per la teoria sistemica funzionalistica, storicamente cieca, tipo Luhmann). La forma della totalità (merce e denaro) appare contemporaneamente come particolare "sfera funzionale" della cosiddetta economia; vale a dire, la totalità in forma di merce si deve dapprima mediare con sé stessa tramite il suo "divenire altro" (il vero fondamento sociale di tutta la costruzione hegeliana). Perciò la schizofrenia strutturale non può più essere distribuita in maniera diffusa, come nella costituzione religiosa premoderna, ma deve piuttosto manifestarsi come separazione funzionalistica delle sfere (di "economia" e "politica") e quindi in termini istituzionali.

L'universalità astratta tendenzialmente immediata, diffusa e "larga", che risultava dalla struttura religiosa profonda e comportava una totalità poco differenziata del processo vitale e sociale, si scinde dunque attraverso la trasformazione moderna della costituzione feticistica in un sistema di sfere separate, nelle quali la forma-merce totale si media con se stessa. La schizofrenia strutturale, ormai istituzionalizzata, fa apparire le sfere separate sotto forma di coppie antitetiche logiche e istituzionali, in cui il nesso di mediazione si rappresenta alla superficie senza mostrare una traccia della sua genesi. Come la totalità in forma di merce si scompone nell'opposizione strutturale di "individuo" e "società", lo spazio sociale nell'opposizione tra "privato" e "pubblico" e il mondo vitale del singolo in quella tra "lavoro" e "tempo libero", così il nesso funzionale di questa totalità si scinde nell'opposizione tra "economia" e "politica".

Differentemente dalla società premoderna, il "ricambio organico con la natura" non viene più codificato da tradizioni di tipo religioso, quanto piuttosto dal processo di astrazione della forma-merce: trasformazione del contenuto materiale e sensibile della riproduzione in "cose astratte", la cui forma fenomenica è il denaro, indifferente a quello stesso contenuto. L'universalità sociale non si rappresenta più immediatamente, attraverso la costituzione religiosa e le tradizioni da essa derivate (l'unica forma di mediazione allora possibile è la forza diretta), ma mediata dal meccanismo di mercato che si estende gradualmente all'intero rapporto con la natura. Il legame sociale, ora non più rappresentato e codificato direttamente dalla tradizione e dalla forza, ma solo indirettamente dalla mediazione del mercato, non può sostituire completamente il legame creato dalla tradizione e dalla forza.

Paradossalmente, è proprio tramite la reciproca separazione operata dalla forma-merce che gli uomini vengono a dipendere molto più fortemente dal legame sociale nel "ricambio organico con la natura" che nella società premoderna, caratterizzata a questo riguardo da piccole unità riproduttive largamente autarchiche. La società della merce, che in forza della sua logica tende a una specializzazione sempre più elevata nel rapporto con la natura, rappresenta però solo indirettamente un più alto livello di socializzazione. Lo rappresenta in modo rovesciato nella forma fenomenica di una "desocializzazione" operata dal meccanismo di mercato cieco e privo di soggetto. Poiché le merci stesse non possono essere "soggetti", e di conseguenza nella relazione di merce gli individui di questa "socializzazione asociale" (in sé assurda) si debbono comunque riferire, secondariamente, l'uno all'altro direttamente, si è dovuto formare il subsistema della "politica" in cui vengono trattate le relazioni dirette secondarie. Proprio a causa del grado più elevato di socializzazione - che è tuttavia determinato da una più profonda separazione e mancanza di connessione degli uomini, ormai solo indirettamente mediati tra di loro nel loro rapporto con la natura - nasce un bisogno di regolazione, molto più forte di quello della società premoderna, che viene trasferito nella sfera funzionale separata della "politica".

Lo spazio istituzionale della sfera funzionale (primaria, indiretta) dell'"economia" è il mercato; lo spazio istituzionale della sfera funzionale (secondaria, diretta) della "politica" è lo Stato. Nella moderna costituzione feticistica basata sulla forma di merce, lo Stato è quindi qualcosa di completamente diverso che nelle società premoderne, così come lo sono le altre categorie sociali falsamente ontologizzate. L'apparato statale assolve le funzioni di regolazione della produzione di merci totalizzata (diritto, logistica e infrastruttura, rapporti esterni ecc.): le decisioni al riguardo debbono passare, in un modo o in un altro, per il "processo politico" e la relativa sfera. Nel complesso si può dire che l'universalità astratta non si stende più in quanto totalità immediata come una foschia sopra la società, ma, essendo mediata, si scinde alla base in privato e pubblico, mercato e Stato, denaro e potere (o diritto), economia e politica.

L'individuo asocialmente socializzato (che si concepisce perciò come l'astratto polo opposto alla "società") diventa così il punto di intersezione di due sequenze opposte, privato-mercato-denaro-economia da un lato e pubblico-stato-potere/diritto-politica dall'altro. Questa opposizione non è però solo complementare, ma direttamente ostile, poiché da ambedue le sequenze si sviluppano anche interessi opposti. Ciò che sul piano privato pare positivo, come virtù e come motivazione, si rivela negativo sul piano pubblico, come vizio e come demotivazione. L'interesse al guadagno monetario continuo è ostile al diritto o a certi aspetti del diritto, mentre l'interesse del medesimo soggetto alla massima tutela dei suoi diritti deve essere ostile al guadagno monetario sfrenato. Ugualmente, l'interesse monetario è di per sé internazionale e senza confini, mentre, nell'interesse stesso della sua autoaffermazione, esso deve al contempo subordinarsi a un interesse nazionale di Stato.

La riduzione del "concetto del politico" a un antagonismo amico-nemico, operata da Carl Schmitt, ha così qualche contenuto di verità, ma non certo nel senso del suo inventore. La definizione ultima della "politica" come distinzione di amico e nemico è solo l'esteriorizzazione di un conflitto strutturale che infuria all'interno dello stesso soggetto determinato dalla merce. Gli individui come i soggetti istituzionali della moderna società della merce sono allo stesso tempo amici e nemici di sé stessi, due anime lottano senza tregua nel loro petto. La schizofrenia strutturale, caratteristica di tutte le società feticistiche, si è solo aggravata, differenziata e istituzionalizzata nella costituzione a forma-merce della modernità. Perciò essa si muove verso una prova storica decisiva: quanto più si sviluppa il sistema produttore di merci sul suo proprio terreno, tanto più, di conseguenza, si scinde al proprio interno il soggetto umano, mostrandosi come duplicità spaventosa di homo economicus e homo politicus.

- II -

La scissione strutturale del sistema produttore di merci nelle sfere funzionali di "economia" e "politica" è diventata una delle fonti principali delle contrapposizioni e delle lotte ideologiche nella modernità. I due poli dell'antagonismo interno venivano, nella loro complementarietà, dotati ciascuno di una sua identità. L'antagonismo ideologico tra "liberismo economico" e "statalismo" è però rimasto a lungo coperto dai conflitti all'interno dello stesso polo "statalista" o "politicista". Questo fatto si spiega innanzitutto sul piano storico. Infatti, abbiamo a che fare non solo con un antagonismo strutturale all'interno del sistema produttore di merci, ma al contempo con un antagonismo tra questo sistema in quanto tale e la vecchia costituzione premoderna con le sue tradizioni, le sue forze, i suoi poteri. Dal Rinascimento fino al Novecento avanzato, la storia del sistema produttore di merci è stata, insieme, la storia della sua penetrazione; solo dopo la seconda guerra mondiale, e a rigor di termini forse addirittura solo a partire dagli anni Ottanta, gli ultimi resti e le ultime scorie, e perfino i semplici ricordi della costituzione premoderna possono essere considerati definitivamente eliminati.

In questa storia, il conflitto interno doveva venir coperto e deformato dalle contraddizioni della penetrazione, cioè dal modo in cui il moderno sistema feticistico si è costituito e ha formulato il suo conflitto interno, ancora nascosto, come conflitto esterno con il vecchio sistema. In questa situazione storica, il polo statalista e politicista ha potuto prevalere, poiché aveva una doppia funzione: da una parte era una delle due polarità interne al sistema capitalistico, dall'altra rappresentava la forma dell'opposizione esterna tra il sistema stesso e la costituzione premoderna della società agraria dei ceti. La sfera funzionale diretta della "politica", che dal punto di vista dell'immanenza sistemica era solo secondaria, ha ricevuto dunque un ruolo supplementare tramite la rivoluzione borghese, che era essenzialmente "politica", poiché doveva imporre, direttamente e in conflitto istituzionale con il vecchio sistema, una nuova forma di inconsapevolezza, mentre il processo di trasformazione sul lato "economico" si è svolto in modo piuttosto spontaneo, e per così dire, osmotico.

Da questa situazione storica ha tratto origine l'enfasi del politico; si misconosceva il carattere secondario di questa sfera, capovolgendolo addirittura nel suo contrario: il "primato della politica" e i suoi diversi proclami apparivano come il riflesso dello sviluppo storico e, sempre di nuovo, dei dislivelli nello sviluppo ineguale delle diverse regioni, paesi o continenti. In altre parole: la "politica" era diventata il modo di penetrazione del sistema produttore di merci contro le resistenze e le arretratezze premoderne; solo così poteva assumere la sua caratteristica enfasi, del tutto ingiustificato se si bada al suo ruolo immanente nel sistema. Sicché, per un lungo periodo, i conflitti non si sono formulati intorno al vero antagonismo intrasistemico tra i poli, è accaduto bensì che il problema interno della contraddizione e il problema esterno della modernizzazione si si sono riprodotti e amalgamati, all'interno del polo "politico" come antagonismo tra destra e sinistra.

Il predominio del polo politico e il suo modo di presentarsi prevalentemente come alternativa tra destra e sinistra si sono alimentati poi da due fonti. Da un lato, i poteri della vecchia costituzione al tramonto e gli assetti della fase di diffusione del sistema capitalistico, temporanei e ancora immaturi, sempre di nuovo da superare (detto più precisamente: le molteplici combinazioni e gli amalgami - sempre di nuovo fluidificati - delle vecchie formazioni feticistiche e di quelle nuove), venivano spinti, per difendersi, a schierarsi sul terreno stesso del nuovo e nelle sue stesse configurazioni funzionali. Alla fine la resa era inevitabile: ciò non toglie che essa è stata scandita da conflitti spesso lunghi e tenaci. Detto altrimenti: i vecchi poteri da smantellare apparivano per forza essi stessi come "partito politico" (o come la sua forma embrionale, il suo surrogato, la sua mimicry ecc.) nell'arena, sollecitando così involontariamente la stessa nascita della moderna sfera funzionale della "politica" e quindi la nascita di quella forma antagonistica che è tipica del automediazione del moderno sistema produttore di merci.

L'antagonismo intrapolitico tra destra e sinistra riproduceva in questo modo, parlando in termini idealtipici (perché nell'empiria storica esso è naturalmente sempre "impuro" e attraversato da linee trasversali di contraddizione), l'antagonismo esterno tra il sistema in via di formazione e la società premoderna, o i propri predecessori. "Sinistra" era allora la radicale avanguardia del nuovo sistema e quindi della rivoluzione borghese, "destra" invece, nella fase di ascesa, il partito della tradizione e/o del rispettivo establishment; i "moderati" erano relativamente "di sinistra" rispetto a questo establishment e relativamente "di destra" rispetto al partito della modernizzazione radicale. Nella mischia ideologica da cui è attraversata tale costellazione, l'opposizione al nuovo sistema, che ne intuiva i difetti e le catastrofe, poteva essere in un modo ambiguo "di destra", salvo apparire "di sinistra" da un altro (e posteriore) punto di vista, come nel caso di Balzac e soprattutto dei romantici, che sono stati utilizzati a fini di autolegittimazione dai più diversi critici posteriori. Sul piano istituzionale, a questa costellazione corrispondeva un sistema dei partiti ancora non sviluppato, in quanto nei "partiti" si intravvedevano ancora, addirittura in funzione dominante, i vecchi "ceti" e i loro organi rappresentativi.
La seconda fonte dell'enfasi politica, così come dell'antagonismo intrapolitico, era la lite intorno alle forme di modernizzazione e agli elementi funzionali del sistema moderno stesso. Qui si affrontavano posizioni che possono essere decifrate come reazioni polarizzate a un identico sistema di riferimento, i cui elementi si sono formati in modo non-contemporaneo e contradditorio. Per potersi dispiegare, il sistema produttore di merci ha infatti dovuto rompere i confini della vecchia società in due direzioni: da un lato superando la ristrettezza locale variopinta, mediante la costituzione di economie nazionali e di Stati nazionali; dall'altro superando la ristrettezza sociale mediante la costituzione della democrazia e dello Stato sociale. I due processi sono l'uno la condizione dell'altro, ma nel corso del loro dispiegamento è accaduto che essi si distribuissero diversamente, o addirittura antagonisticamente, all'interno dello schema destra/sinistra.

Per quanto riguarda la nazione, le destre hanno tanto più prevalso, quanto più all'interno della sfera politica in via di formazione l'antagonismo tra destra e sinistra ha cessato di incarnare il confronto tra la nuova e la vecchia costituzione, riformulandosi sul terreno proprio del nuovo sistema. Se nel periodo tra la Rivoluzione francese e il 1848, l'enfasi della formazione nazionale era ancora modulata "da sinistra", con contenuti liberali o socialisti, come inasprimento della lotta contro il fronte "di destra" costituito dai rappresentanti metternichiani dell'assolutismo e del governo dei prìncipi, il baricentro del nazionalismo si è poi spostato tanto più a destra, quanto più si è evoluta la società borghese della merce, creando la propria destra (che solo a quel punto è diventata veramente "politica"). Il nazionalismo di destra non si è invece scaldato troppo per la costituzione della democrazia e dello Stato sociale. Ciò non significa affatto che tali istituzioni non siano state occupate anche "da destra"; ma dalle leggi sociali di Bismarck fino ai programmi sociali dei fascisti o dei nazionalsocialisti, la destra politica ha sempre conservato una fondamentale tendenza corporativistica, arricchita di un'ideologia elitaria, che non ha mai potuto sbarazzarsi del tutto da scorie reazionarie e disfunzionali rispetto al moderno sistema feticistico produttore di merci.

La sinistra, al contrario, ha prevalso sul terreno della democrazia e dello Stato sociale, anzi lo ha agghindato di un'aura metafisica (come ha fatto la destra con la nazione). L'enfasi della "democratizzazione" ha contraddistinto la sinistra, che aveva accolto il pathos della rivoluzione borghese, arricchendolo con la "questione sociale". Tuttavia, il democratismo e il socialismo di sinistra non hanno saputo coniugarsi senza riserve con l'ideologia nazionale, poiché il conflitto, gestito "da sinistra", che accompagnava la "democratizzazione" e la "socializzazione", essendo un conflitto essenzialmente interno alle società nazionali della merce in via di formazione, sembrava parzialmente mettere in questione la nazione e lo Stato nazionale in quanto elementi unificatori. La gestione dell'ideologia nazionale "da destra" stilizzava invece la volontà di autoaffermazione esterna (contro le altre nazioni e gli altri "interessi nazionali") e doveva di conseguenza essere orientata piuttosto verso l'"unità interna" (anche imposta con la forza). Ma così come la destra politica non era affatto priva del suo elemento sociale e democratico (detto ironicamente: socialdemocratico), così anche alla sinistra non mancavano del tutto elementi nazionali e, sul piano ideologico, nazionalistici. Le prove sono sotto gli occhi di tutti: dall'entusiasmo bellico dei socialdemocratici nella prima guerra mondiale fino alla componente nazionale nelle rivoluzioni borghesi dei ritardatari storici (Unione sovietica e Terzo mondo). Tuttavia, l'elemento nazionale è sempre stato nella sinistra circondato da riserve - anche se a tratti quasi sparite -, dovute all'orientamento di base democratico e socialista; a causa di queste riserve, la sinistra non ha mai potuto mobilitare l'ideologia nazionale così a fondo e con tanto successo come la destra.

In questa costellazione complessiva, che corrisponde a uno stadio avanzato dell'ascesa del sistema produttore di merci - dal tardo Ottocento in poi -, si afferma anche un sistema dei partiti più evoluto, destinato a durare fino a metà Novecento. Lo schema destra-sinistra ha preso solo allora, nel contesto della nuova costituzione, la sua vera fisionomia. Si può parlare a questo proposito di un'"epoca delle ideologie" e di un'"ideologizzazione delle masse", ormai strappate ai loro legami di ceto e a quelli connessi all'economia di sussistenza e mobilitate per l'ascesa della forma-merce totale. Al posto dei partiti su base corporativa subentrarono partiti ideologici, che rappresentavano interessi ormai completamente traducibili in forma di merce; solo in questi partiti la "politica" come modo di ascesa della nuova costituzione ha raggiunto la propria essenza; solo in essi si è sviluppata una sfera propriamente politica nella società complessiva.

La fase ascendente, ancora lungi dall'essere terminata e superata, in quel periodo non riguardava più solo la cornice esterna istituzionale, bensì la forma del soggetto in quanto tale; non più solo un'élite nel vecchio senso, bensì le masse da formare. Se nella costituzione religiosa premoderna, l'universalità sociale era incarnato soltanto dalle rispettive élite, mentre le masse venivano sottomesse ad essa solo indirettamente, invece, in quanto forma-merce, questa stessa universalità era destinata a far presa immediatamente sulle masse. All'immediatezza "naturale" dei rapporti premoderni con la natura corrispondeva un'esistenza secondaria, mediata, personificata dell'universalità sociale; inversamente, al rapporto moderno con la natura, non più diretto, ma mediato dalla forma-merce, corrisponde necessariamente l'immediatezza dell'universalità sociale feticistica nella forma-soggetto apposta ormai su tutti gli uomini, senza che valga più alcun particolarismo. Infatti, staccando i produttori dal rapporto immediato con la natura e trasformandoli in puri dispensatori di quantità di lavoro astratto, anche l'universalità astratta si è tramutata da coscienza-foschia onnipresente, ma diffusamente distribuita - caratteristica della costituzione religiosa - in totalità altrettanto onnipresente, ma dura, del denaro e della sua autovalorizzazione.

Ma l'autovalorizzazione del denaro - in quanto "forma di rappresentazione", o incarnazione feticistica, del lavoro astratto, mutato in cieco scopo tautologico della società - è possibile solo con la mediazione del mercato, cioè si può realizzare solo in atti di vendita e di compera che abbracciano senza eccezione tutti gli uomini; perciò, in contrasto radicale con la società premoderna, cominciò a valere per tutti gli uomini, senza eccezione, una forma di soggetto uguale, "egualitaria", incatenata dittatorialmente al denaro. Infatti, la realizzazione dell'autovalorizzazione feticistica del denaro è possibile solo tramite il "libero" atto di volontà degli uomini, in quanto soggetti totali di vendita e di compera. Tale necessità non si accorda né con i legami tradizionali, né con la limitazione del "soggetto portatore" della forma feticistica di universalità a un'élite. L'ascesa della nuova costituzione, dominata dal feticismo della merce, appare perciò, guardando indietro, come liberazione dalle costrizioni della costituzione religiosa, come enfasi dell'egualitarismo e della "libera volontà"; il che però, guardando in avanti, è esso stesso un abbaglio ideologico, poiché questo nuovo egualitarismo della forma-denaro totale genera non solo nuove differenze sociali e nuovi fenomeni, tanto più brutali, di povertà e privazione da ogni mezzo di riproduzione, ma anche costrizioni nuove e non meno brutali. La "libera volontà" non è per niente "libera" di fronte alla sua propria forma, cioè alla forma-merce e alla forma-valore, e alle loro leggi di ferro, cui le possibilità e i bisogni umani vengono sacrificati non meno di quanto avveniva nelle costituzioni feticistiche premoderne. La precedente sottomissione alla tradizione d'impronta religiosa e alle sue personificazioni viene semplicemente sostituita dalla sottomissione ancora più disperata al potere impersonale e reificato del denaro e delle sue "leggi", che, come le tradizioni religiose dell'epoca premoderna, vengono accettate ciecamente, come se fossero leggi naturali.

Durante l'ascesa del moderno sistema feticistico e produttore di merci, a ogni grado nuovo del suo sviluppo, questi nessi incompresi hanno suscitato nuove produzioni di ideologie e un nuovo mutamento della sfera politica in via di formazione. La sostituzione della politica ottocentesca, ancora di forte impronta corporativa, e del rispettivo sistema dei partiti, ancora immaturo, con l'ideologizzazione delle masse e con la loro enfatica inclusione nella politica - la socialdemocrazia marxista è stata precorritrice e protagonista di questa tendenza, poi gestita in modo crescente anche "da destra" - corrispondeva dunque non solo alla logica interna del sistema feticistico moderno, ma anche al modo specifico in cui esso si è affermato dalla fine dell'Ottocento in poi. Il "passaggio" fordista alla produzione di massa, compiutosi in Europa con la prima guerra mondiale (al termine del conflitto il continente poteva dirsi motorizzato) esigeva logicamente il passaggio al consumo di massa di merci prodotte capitalisticamente, e quindi alla democrazia politica di massa, qualunque fosse la sua forma. I feticisti della democrazia se ne scandalizzeranno, ma di questa "democratizzazione", e quindi politicizzazione, delle masse facevano parte anche i regimi fascisti, nazionalsocialisti e stalinisti, in quanto hanno promosso la mobilitazione tecnica, ideologica e "de-tradizionalizzante" delle masse, che è il presupposto della forma-merce totale e quindi della democrazia dispiegata.

La democratizzazione non è altro che la sottomissione totale alla logica senza soggetto del denaro. Nella misura in cui le masse avevano raggiunto questa condizione, che dopo la seconda guerra mondiale si imponeva man mano su scala globale, anche la sfera della "politica" doveva modificare, un'altra volta, i suoi modi d'aggregazione. La mobilitazione politicistica delle masse, che nelle regioni arretrate del mondo celebrava ancora qualche trionfo ("movimenti di liberazione" nel Terzo mondo), cominciava già a essere disfunzionale nelle società della merce più evolute. Le masse erano ormai pervenute alla condizione in cui esiste solo il guadagno monetario totale: non c'era più bisogno di mobilitarle con la forza, o fanatizzarle ideologicamente a questo scopo. Non appena il sistema feticistico moderno ha quasi terminato, dopo la seconda guerra mondiale, la sua fase ascendente, diventando identico con sé stesso, è sparito per forza di cose anche il furore ideologico e si è indebolita l'enfasi politicistica. Il movimento del 1968 può così venir compreso anche (pur non esaurendosi in ciò) come l'ultimo sussulto superficiale dell'impulso democratizzante e politicizzante. Ma la logica profonda del sistema spingeva da tempo verso la "de-ideologizzazione", e dunque anche verso la "depoliticizzazione" (almeno rispetto al tradizionale concetto enfatico di politica).
Anche il sistema dei partiti ha seguito necessariamente questo mutamento. I partiti hanno perso l'aspetto ideologico appena acquisito e si sono trasformati nei cosiddetti "partiti popolari", cioè in conglomerati di interessi e clientele nell'ambito della forma-merce, in cui i resti dei vecchi ceti, delle classi sociali e delle ideologie provenienti dalla passata fase ascendente del sistema sono ormai visibili solo per deboli echi. È quindi venuta di moda l'ideologia della non-ideologia, il cui contenuto è una coincidenza muta, cieca e senza presupposti con i criteri feticistici della modernità ormai sviluppati. Con il crollo del socialismo di Stato, la conclusione della decolonizzazione (il cui ultimo atto probabilmente è stato il Sudafrica) e l'unificazione negativa del sistema produttore di merci nella "One world" totale, la trasformazione della sfera politica in sfera "non-ideologica" è definitivamente terminata.

I politicisti tradizionali, a sinistra come a destra, possono deplorare tutto ciò, ciascuno a modo suo, ma naturalmente non si può più tornare indietro. Mentre i "sinistri" hanno nostalgia della democratizzazione, ideologicamente enfatizzata nelle loro teste, e delle relative fantasie, ai "destri" piacerebbe ancora poter disprezzare l'arido "spirito bottegaio", mentre si ricordano con struggimento dell'epoca in cui la politica era ancora un mostro bellicoso che partiva armi e bagagli contro la perfida Albione. I "realisti" invece, diventati senza colore e senza luogo, si credono in sintonia con i proprio tempi, con il mondo e con la modernità realizzata, quando tributano onori all'arido "carattere di contrattazione" di una "politica" ormai "disincantata", rivendicandolo come l'eredità migliore e come la logica conclusione della razionalità occidentale.

- III -

Con il compimento storico del sistema, che diventa sistema mondiale totale, non si è dileguato solo il momento enfatico della "politica", esauritosi perché legato a doppio filo all'ascesa del sistema e ridotto ormai a mera funzione immanente. Infatti, sparendo in questo modo la doppia funzione della sfera politica, viene maggiormente alla luce l'antagonismo diretto delle sfere funzionali di "economia" e "politica", in cui il sistema produttore di merci si deve mediare con sé stesso. Man mano che si è andata dissolvendo l'enfasi ideologica della fase ascendente ed è trapelato l'arido scopo tautologico della valorizzazione del valore nella sua nudità oscena (perché spogliato da ogni brillante veste ideologica), sempre più è diventato visibile il carattere dipendente, secondario, della sfera funzionale politica. La politica tende a ridursi, sempre più apertamente e unidimensionalmente, a politica economica. Così come nelle società premoderne tutto doveva essere motivato in termini religiosi, allo stesso modo, adesso, tutto deve essere motivato in termini economici. Basta sentire come la parola "economia di mercato" assume un tono liturgico in bocca a tutti gli idioti storici dopo il 1989, dal presidente degli USA e dai verdi tedeschi fino agli ex-comunisti russi. Qualcosa è buono perché giova "all'economia di mercato", ed è lodevole adoperare ogni cosa morta e vivente per l'economia di mercato.

E come l'antagonismo tra destra e sinistra è stato rappresentato, negli stadi anteriori della formazione del sistema, da monarchici e repubblicani, o da socialisti e fascisti, così, adesso, viene impersonato da keynesiani e monetaristi, da liberisti radicali e fautori dell'intervento statale. L'antagonismo intrapolitico tra destra e sinistra, che prima sembrava primario e autonomo di fronte all'economia e che oscurava il contrasto tra le sfere dell'"economia" e della "politica", viene ora a sua volta interamente "economicizzato"; ambedue i lati si orientano sulla politica economica. Solo dopo il 1989, questa condizione si è compiutamente realizzata. Ma non è certo caduta dal cielo; il processo sociale si è mosso con crescente velocità in questa direzione già a partire dalla fine della seconda guerra mondiale; e la direzione stessa era stata presagita ancor prima. La questione di come si possono creare sempre nuovi "posti di lavoro" e nuova crescita, e se bisogna stimolare la congiuntura attraverso la domanda oppure attraverso l'offerta, scalda adesso gli animi tanto quanto nel passato la questione se il diritto di voto spettasse solo a coloro che pagano tasse o anche ai nullatenenti, se una guerra fosse giusta o ingiusta, come si potesse meglio servire la "patria" ecc. Certo, le vecchie contrapposizioni politico-ideologiche esistono ancora, ma solo come vuoti involucri, sbiaditi e consunti. Perfino il neo-nazista non motiva più le sue rivendicazioni economiche in nome della razza, ma viceversa il suo razzismo con interessi economici.

L'ardore politico-economico spiega, però, anche perché la fine storica della fase ascendente del sistema produttivo di merci non abbia significato affatto che la sfera politica in quanto tale sia sparita, per far posto a una diretta "contrattazione" socio-economica degli interessi in forma di merce. Non la "politica" in quanto tale sparisce insieme alla fase ascendente del sistema, ma solo la sua doppia funzione e la sua enfasi apparentemente autonomizzata, la sua veste ideologica. Ciò che rimane, perché inevitabile e ineliminabile sul terreno del sistema, è la sfera della "politica" come funzione secondaria nell'incessante processo di automediazione della forma-merce, ormai incontestata e onnipresente. Il fatto che il politico permanga come un residuo risulta dal carattere di feticcio di questo processo. È l'universalità astratta della modernità - raddoppiata nella forma (primaria) del denaro e nella forma (secondaria) dello Stato -, cioè la "volontà generale" come "dio" senza soggetto della socializzazione inconsapevole, a imporre questa sfera dell'automediazione. Appunto perché il dio della forma-merce totale non è un vero soggetto esterno, ma un prodotto storico nelle teste degli uomini, che tuttavia impone loro tutte le loro azioni storiche, appunto per questo gli uomini debbono compiere l'automediazione del sistema senza soggetto anche attraverso la schizofrenia del proprio pensare e agire; essi debbono aiutare il dio chimerico e agire come l'altro di sé stessi; la "politica" ormai completamente "spennata" e disincantata rimane perciò, sul terreno del sistema, una sfera funzionale irrinunciabile.

La necessità della sfera funzionale della "politica" è qui stata analizzata in termini teorici, ma può ugualmente essere descritta dal punto di vista dell'agire immanente. In primo luogo, i molteplici interessi che hanno forma di merce non possono, a partire da sé stessi, essere oggetto di "concertazione" fino a diventare forme accettabili. Ciò significherebbe che soggetti veramente capaci di intendere e di volere, consapevoli della loro socialità, intrattengono dei rapporti comunicativi e decidono direttamente dell'utilizzo delle risorse; in tal caso, però, non si tratterebbe più di soggetti ricalcati sulla forma di merce, e dunque neanche di interessi in forma di merce. Dal punto di vista dell'interesse costituito invece, non è possibile nessuna decisione, se mancano le condizioni generali e la "terza" istanza. Se la socialità si fosse dunque dissolta in un'unilaterale costituzione socio-economico, e se tutti i portatori di funzioni a forma di merce si scontrassero solo immediatamente in quanto "sindacati" dei loro interessi speciali, non si potrebbe più concertare niente, poiché non esisterebbe più nessuna istanza per il criterio comune (della volontà generale). Significherebbe il ritorno alla violenza immediata e quindi la dissoluzione istantanea dell'intera struttura. Il "concertare" deve avvenire in un sistema obbligatorio di regole (il diritto), la cui determinazione non può svolgersi sullo stesso piano su cui si svolge il contrasto di interessi in forma di merce; deve invece passare attraverso la sfera diversa e opposta della "politica".

In secondo luogo, la sfera statale e politica non è solo necessaria come "arbitro" degli interessi in contrasto e di per sé non-mediati, ma anche come portatore di quelle risorse che in quanto aggregati infrastrutturali sono diventate condizioni generali per l'intero processo di valorizzazione, senza poter valorizzare direttamente il denaro. Questi aggregati non possono perciò venir abbandonati alla furia degli interessi particolari, poiché nessuna istanza particolare di valorizzazione darebbe di sua volontà abbastanza denaro per i faux frais dell'intero sistema, mentre le risorse necessarie non potrebbero mai confluire in quantità sufficiente come risultato di una mera "concertazione" tra gli interessi particolari. Sia in quanto arbitro dei contrasti d'interessi e portatore della forma giuridica, sia come amministratore degli aggregati infrastrutturali, lo Stato quale "capitalista complessivo ideale" rimane perciò irrinunciabile per il sistema. La sfera della "politica" come forma di automediazione del sistema non può dunque sparire del tutto.
Una volta disincantata, della "politica" viene in luce anche il carattere secondario e dipendente, benché essa continua a essere necessaria. La politica è una semplice forma di mediazione di qualcosa di più vasto, su cui essa, "in quanto" politica, non ha un influsso autonomo; così come la forma-merce in quanto tale e le sue leggi di movimento cadono al di fuori della "libera volontà" dei soggetti-merce, allo stesso modo restano anche al di fuori della specifica forma "politica" della volontà, che è solo una forma derivata. Lo Stato è la sintesi degli interessi particolari ed è quindi il "capitalista complessivo ideale", non nel senso di poter diventare una meta-volontà, di cui l'"economia" sarebbe solo la "base", sulla quale questa volontà potrebbe agire davvero "liberamente", limitata solo dalla quantità e qualità dei suo "mezzi di potere". Questa era l'illusione politicistica e statalistica, nutrita durante la transitoria fase d'ascesa del sistema. Se in questa fase l'"economia" poteva apparire "politicizzata", ora le cose stanno al contrario: è la "politica" ad apparire "economicizzata". In tal modo è ristabilito il vero rapporto tra l'una e l'altra sul terreno del sistema produttore di merci.
In questa congiuntura assistiamo anche alla sconfessione storica del paradigma di sinistra - apparentemente indistruttibile - sull'"economicismo". Il suo fondamento concettuale è un elementare errore di pensiero: la forma-merce come forma di totalità viene confusa con la superficiale sfera funzionale dell'"economia", in cui la merce e il denaro agiscono e appaiono immediatamente in termini empirici; la forma-merce, che in verità è totale, appare allora in termini riduttivi come mera "economia", di fronte a cui la "politica" avrebbe delle possibilità di intervento autonome e addirittura determinanti. A rigor di termini viene così meno un concetto di totalità, ovvero, la totalità mediata si scinde aconcettualmente in "economia" e "politica" che non possono venir riconosciute (o comunque non coerentemente) come sfere funzionali derivate da qualcosa di identico e di superiore; oppure il concetto di totalità viene esso stesso distorto in senso politicistico ("capitalismo" come falso concetto di un "potere" inteso soggettivamente). Per ironia della sorte, l'abituale critica di sinistra all'"economicismo" argomenta anch'essa, suo malgrado, in termini "economicistici", attribuendo piattamente la forma-merce alla sfera funzionale visibile dell'"economia", invece di riconoscerla come una forma di totalità che include anche la sfera della "politica". Il contrasto tra "economia" e "politica" non può più venir compreso come il contrasto immanente della forma-merce e della sua costituzione feticistica, che risulta dal problema della sua automediazione, ma solo come contrasto esteriore e non-mediato, che lascia spazio per l'ipostatizzazione di sinistra (altrettanto comune) della politica.

Il vero segreto di quest'ipostatizzazione è l'incapacità assoluta di tutte le forme tradizionali della "sinistra" di affrontare in qualche modo il problema di un superamento della forma-merce. La "critica all'economicismo" era in fondo sempre una scappatoia davanti a questo problema; si saltava allora rapidamente verso la "politica". Al posto di un superamento della forma-merce, che non può neanche venir pensato, è perciò subentrata una variante qualsiasi della "regolazione politica" che dovrebbe esercitare un controllo "politico" sulla forma-merce ontologizzata e ridotta alla sfera funzionale dell'"economia". L'ipostatizzazione del concetto di democrazia faceva generalmente parte di questa concezione. Il capitalismo, inteso in un senso estremante riduttivo, doveva venir superato non attraverso l'eliminazione della moderna forma-feticcio, ma attraverso la sua "democratizzazione" e "politicizzazione". Questa campagna politicistica della sinistra, completamente ideologica e priva di ogni consapevolezza rispetto alla vera costituzione sistemica, veniva completata da un'inversa ipostatizzazione, ugualmente politicistica, del potere statale capitalistico, ritenuto capace di una sua autonomia di fronte alla "base economica", di un rapporto strumentale con questa e di una posizione generale di comando. Poiché voleva assurdamente superare in termini "politici" il capitalismo, ignorando l'immanente carattere sistemico della sfera funzionale politica, la sinistra non cessava di gonfiare anche la parte opposta, lo Stato capitalistico e i suoi gestori politici, facendone il meta-soggetto e il presunto demiurgo del processo complessivo. Quest'immagine di un nemico "potentissimo" non andava oltre la superficie funzionale, non arrivando la critica al nucleo del modo di produzione capitalistico.

L'idea di un comando politico-statale sull'"economia" (non superata e sempre in forma di merce), sia come un "potere operaio" rivoluzionario o riformistico, sia come un centro "imperialista" di comando, si è aggirata con varianti sempre nuove nelle teorie del movimento operaio, del marxismo e della sinistra. Questa concezione allignava in ambedue i campi dello scisma che ha diviso socialdemocratici e comunisti; si trova presso Lenin come presso Hilferding, seppure in forme diverse. Nella teoria di Adorno e Horkheimer sullo "Stato autoritario", fiancheggiata in termini di economia volgare dalle ricerche di Friedrich Pollock, questo pensiero ha raggiunto un nuovo apice, seppure con toni pessimistici. Si riteneva che lo Stato avesse definitivamente posto sotto il suo controllo il processo di valorizzazione e il meccanismo di mercato, in un modo negativo, "falso", autoritario, e di averli trasformati in un sistema regolativo "pianificato" e strutturato gerarchicamente.

Per quanto questa concezione possa essere comprensibile sotto l'influsso diretto del nazionalsocialismo, essa rimane comunque un errore teorico fondamentale. Il modo statalistico e politicistico dell'ascesa, di cui anche il nazionalsocialismo era un rappresentante, veniva confuso con la logica strutturale del sistema e con il suo compimento. Lo stesso errore si trova poi nell'"operaismo" dell'estrema sinistra (Negri e altri), dove è già meno perdonabile; e infine lo stesso equivoco appare anche nelle impostazioni di Habermas e dei teorici postmoderni (Baudrillard), in cui la "teoria del valore" di Marx o addirittura il "valore" in generale vengono dichiarati "superati". Queste impostazioni infatti non riconoscono il potenziale di crisi del processo di valorizzazione, oppure prendono per buone le spettrali figure di simulazione del "capitale fittizio". L'intero radicalismo di sinistra più recente è coinvolto profondamente in questo paradigma teorico grossolanamente erroneo, le cui radici storiche in gran parte gli restano ignote.
La critica di sinistra all'"economicismo" si può dunque spiegare solo con l'enfasi politicistica della fase ascendente borghese; sicché, la sinistra si è rivelata essere una mera componente di questa fase, un polo all'interno della costituzione moderna, e non la sua critica. Questa critica evidentemente è ancora da fare, ed essa non può più venir formulata dal punto di vista della sinistra tradizionale. L'angustia borghese della critica all'"economicismo" può essere dimostrata anche a partire dall'immanente nesso funzionale. La presunta autonomia della "politica" viene smentita già dal fatto che la sfera politica non dispone di un proprio mezzo di influenza. Tutto ciò che fa lo Stato tramite la politica, lo deve fare con il mezzo del mercato, cioè nella forma-denaro. Infatti, ogni misura e ogni istituzione debbono essere "finanziate". Il problema della "finanziabilità" fa naufragare ogni autonomia della "politica", anche la "relativa autonomia" spesso evocata dalla sinistra (perfino questa frase fatta è stata per lo più un'adesione puramente verbale alla non risolta critica marxiana dell'economia; in verità la sinistra ha sempre trattato la presunta autonomia della "politica" come assoluta).
La dipendenza della "politica" dalla finanziabilità delle sue deliberazioni, e quindi dalla forma-denaro del mercato, è assoluta, poiché la sfera politica e statale non può creare autonomamente denaro. Il tentativo da parte dello Stato di impadronirsi direttamente, attraverso la banca d'emissione, della facoltà di creare moneta costituisce sempre un elemento del crollo del sistema; la continua emissione di carta moneta e la produzione di "denaro senza sostanza" - insomma, la creazione statale e improduttiva di denaro - viene sempre punita da un'iperinflazione rovinosa per il sistema. È assurdo presentare la pseudo-creazione statale di denaro come "misura chiarificatrice", come ogni tanto cerca di fare il radicalismo di sinistra politicistico. Al contrario, l'inflazionamento equivale a una dichiarazione di resa da parte della sfera politica sul terreno, per essa irraggiungibile, della forma di rappresentazione del "valore". Il fallimento definitivo della politica in questo campo, fallimento che nella storia si è già profilato più volte, non è mai stato evitato e differito mediante misure politiche, ma sempre e solo dall'ulteriore avanzata storica della valorizzazione del denaro: indipendentemente da ogni "politica".

Questo limite elementare dello Stato svela la vera impotenza della sfera politica; proprio qui, infatti, l'autonomia della "politica" e la capacità di comando dello Stato dovrebbero farsi valere. Solo da processi riusciti di valorizzazione, mediati dal mercato, lo Stato può trarre il denaro per il "finanziamento" di tutte le sue misure. La sua funzione di riscuotere i tributi e il connesso autoritarismo lo fanno perciò apparire, ad uno sguardo storicamente e strutturalmente poco esercitato, come la guida di tutto il processo, mentre in verità esso è solo, letteralmente, il "ministro" (il servo) del feticistico scopo tautologico, al cui movimento cieco rimane consegnato irrimediabilmente. Tutte le sue decisioni, risoluzioni e leggi, intorno a cui vertono le lotte politiche, rimangono completamente inefficaci, se il loro finanziamento non è stato "guadagnato" regolarmente dal processo di mercato.
Non per ultimo, ciò vale anche per gli stessi mezzi di potere. Anche carri armati, aerei e sistemi elettronici debbono naturalmente venir finanziati, prima di essere utilizzabili; e viceversa, il processo di valorizzazione, le leggi del mercato e i mercati finanziari non si fanno impressionare minimamente da unità speciali, né da esperti della tortura, né da portaerei o armate schierate. Così, anche nel rapporto empirico delle due sfere funzionali di "economia" e "politica" si ristabilisce visibilmente la vera distribuzione dei pesi, che, pur essendo già sempre all'opera, poteva temporaneamente essere obnubilata dalle nuvole di polvere sollevate dalla turbolenta fase ascendente del sistema. Solo le cieche avanzate dell'accumulazione reale al di là degli interventi politici hanno a più riprese creato spazio per la "politica". Il carattere di totalità della forma-merce relega la "politica" a un ruolo funzionale subordinato: ciò si manifesta come sua dipendenza dall'"economia". Non esiste un dualismo non risolto di denaro e potere, perché il potere non può essere altro che il "ministro" del denaro. Nei fatti, il potere, e quindi la sfera funzionale della "politica", vengono così svelati come forma fenomenica della totalità feticistica dominata dalla forma-merce sociale. La "politica", per sua essenza, non può organizzare le risorse umani e naturali, pur essendo essa la sfera della comunicazione sociale diretta. Il fatto è che questa comunicazione non è "libera" e aperta, bensì rinchiusa nelle cieche codificazioni della forma-merce e delle sue "leggi", che, in quanto inconsapevoli quasi-leggi di natura, precedono già sempre tutte le leggi consapevolmente create, giuridiche, della sfera statale e politica.

Questo miserabile stato delle cose fa dapprima prevalere quella corrente che, come "liberalismo" o "liberismo economico", ha accompagnato fin dall'inizio la storia del moderno sistema feticistico. Il suo credo è la "libertà di chi può pagare". Il liberalismo era inizialmente, in corrispondenza con la nascita rivoluzionaria (o "politica") del sistema, piena di enfasi contro poteri ancora premoderni. Ma fin dall'inizio aveva dentro di sé anche un impulso "antipolitico", perché antistatale (da qui si capisce una certa parentela del liberalismo radicale con l'anarchismo; ambedue rimangono attaccati alla forma-merce); con ciò esso mostra di essere il paradossale rappresentante politico del polo opposto alla "politica" in generale, cioè della sfera "economica" scatenata. Durante la fase ascendente con la sua retorica politicistica, il liberalismo ha perciò dovuto cedere il timone ai politicisti di destra e di sinistra: a socialisti e "comunisti", nazionalisti, "conservatori", fascisti ecc. All'interno della sfera politica, che in fondo aveva alquanto in sospetto, il liberalismo restava un corpo estraneo, sempre più marginalizzato, al pari dei vecchi partiti monarchici e nobiliari, anche se per motivi diametralmente opposti. Se questi ultimi costituivano il retaggio agonizzante del passato premoderno, il liberalismo, al contrario, rappresentava il nucleo della "realta economica", ovvero, la totalità nascosta della forma-merce che storicamente doveva ancora imporsi alla società: secondo l'apparenza superficiale e la concezione ideologica, si tratta dell'automovimento dell'"economia" contro le istanze regolative della "politica".

Visto così, il liberalismo sta, sia all'inizio che alla fine del processo di modernizzazione, ideologicamente al centro - dalla "mano invisibile" nella teoria di Adam Smith fino al tardo neoliberismo di oggi, che è penetrato in tutti i partiti. Se l'originario liberismo era necessariamente esso stesso "politico", oggi il suo paradosso si rovescia; esso rappresenta il criterio "economico" nella "politica" e diventa il fermento generale (non più limitato ai soli partiti liberali) dell'economizzazione della "politica". La "liberta economica" che propaga è solo superficialmente la libertà, soggettiva e distruttiva, di chi "può pagare"; in verità dietro a essa sta in agguato la "libertà" della forma feticistica scatenata, mostruosa e senza soggetto, di cui il liberalismo è l'agente immediato nella "politica". Il suo credo completamente "economicistico", in fondo già formulato da Adam Smith, punta sull'integrale regolazione di tutti gli affari umani attraverso le cieche "forze del mercato", il che equivale alla cieca sottomissione di tutte le risorse umane e naturali al "dio" feticistico della valorizzazione del valore, l'automovimento tautologico del denaro.

Naturalmente, anche il liberismo si suddivide in un vasto spettro ideologico. Le posizioni classiche lasciavano alla sfera statale e politica una certa funzione regolativa esterna, e la posizione monetarista del neoliberismo odierno (Milton Friedman) vuole lo Stato soprattutto come rigido guardiano della stabilità monetaria, sulla cui base può poi agire la "mano invisibile" del mercato. Il liberismo estremistico (von Hayek e altri) vuole perfino esporre il denaro in quanto tale alle cieche "forze del mercato" e dissolvere le banche centrali; in fin dei conti mira a eliminare del tutto la sfera statale e politica per sottomettere tutte le funzioni e tutte le espressioni vitali (fino alla "sicurezza") direttamente al meccanismo di mercato. Nel suo complesso, e naturalmente soprattutto nelle sue posizioni più radicali, il liberismo misconosce totalmente la necessità funzionale sistemica di una sfera politica. L'oggettiva differenziazione di questa nel cieco processo storico del sistema gli pare piuttosto un "errore" soggettivo o un'aberrazione viziosa.
Viene alla luce anche il suo carattere apertamente asociale, come conseguenza necessaria dell'abbandono incondizionato ai criteri folli dell'immediato processo di valorizzazione. L'affermazione ideologica secondo cui proprio il meccanismo di mercato è di per sé sociale e regola l'"allocazione delle risorse" per il più grande benessere di tutti, si capovolge rapidamente in cinismo aperto, allorché la realtà è visibilmente un'altra. Allora il liberismo afferma che la miseria crescente è da imputarsi alla mancanza di voglia di lavorare da parte dei poveri e degli emarginati, alla pigrizia e all'abiezione morale; talvolta si sente dire senza troppe perifrasi che la povertà e la miseria sono sempre esistite e che bisogna accettare questo destino, se il mercato e i suoi criteri, concepiti come eterna necessità naturale, non "permettono" altro per molti uomini, nonostante le aspettative.

Arrivato a questo punto (documentato da recenti parole per esempio di Margaret Thatcher), il liberismo si rivela come il netto contrario di ogni libertà umana nell'organizzazione della propria vita. Le risorse debbono rimanere inutilizzate e andare in rovina (o al contrario venir utilizzate distruttivamente) piuttosto che essere messe in movimento secondo criteri diversi da quelli del mercato. Il liberismo come forza determinante conduce inevitabilmente, perciò, a qualche forma di guerra civile. Alla fine, esso si deve trasformare paradossalmente nel suo contrario: non gli rimarrà altra scelta che mettersi di propria volontà sotto la tutela di qualche potere armato (foss'anche una banda di lanzichenecchi o di gangster), che infine lo tiranneggerà, naturalmente senza arrivare da parte sua minimamente alle leggi di movimento della forma-merce senza soggetto e della mediazione di mercato. L'inconsapevolezza di tutti i partecipanti riguardo ai veri motivi e risultati del proprio agire è già sempre presupposta.

Evidentemente, il liberismo è il contrario complementare del politicismo, di quello di sinistra come di quello di destra. Contro la critica pur sempre infrasistemica dell'"economicismo", condotta da sinistra (e occasionalmente anche da destra), il liberismo costituisce l'ideologia e la propaganda dirette di un "economicismo reale". Qui diventa visibile un paradossale intreccio ideologico di queste due posizioni. La critica da sinistra dell'"economicismo" ha una parvenza di ragione solo quando si scaglia contro una concezione - in realtà proposta solo raramente - che sostiene una dipendenza immediata e meccanica della "politica" dal processo economico empirico. Certo, anche oggi la "politica" non è una variabile direttamente dipendente dal prodotto sociale lordo, dai prezzi di import export ecc. Ma a differenza che nella passata fase ascendente del sistema, perfino questo processo economico empirico incalza molto da vicino la "politica" e in parte l'ha già paralizzata. La diretta dipendenza empirica della "politica" dall'"economia" non significa mai, però, che lo svolgimento del processo politico riproduca meccanicamente lo svolgimento del processo economico, o che lo segua pedissequamente. Il maggiore peso della sfera funzionale economica si dimostra piuttosto quando il suo cieco processo limita e strangola le possibilità di agire della "politica", il che nella sfera politica può portare per esempio a esplosioni irrazionali, azioni disperate, correnti regressive ecc., che naturalmente non sono un mero "riflesso" dello sviluppo economico empirico.

Ma, a parte questo, il vero errore della critica dell'"economicismo" sta in ciò che non dice, nella sua ignoranza di fronte alla strutturale costituzione feticistica della forma-merce totale. La critica dell'"economicismo" porta a evitare ogni critica alla socializzazione in forma di merce o alla forma-merce sociale in quanto tali, salvo poi compensare quest'omissione con fantasie politicistiche. In questa segreta acquiescenza al sistema, tale critica non-critica si incontra con il liberismo, che formula con identica inconsapevolezza la stessa approvazione al sistema, sia pure in forma rovesciata. I critici di destra e di sinistra dell'"economicismo" e gli "economicisti reali" liberali convergono dunque nella comune celebrazione del sistema produttore di merci; i primi incontrano quest'amante di nascosto, imbarazzati e parlando di "critica dell'economicismo"; i secondi apertamente, senza vergognarsene, vantando il proprio "economicismo reale".

La crisi di tutto il campo di riferimento è oggi diventata evidente e pubblica in quanto "crisi della politica". Poiché diventa palese la forma di totalità della merce come principio dominante al di là della sua fase ascendente, e poiché di conseguenza il "subsistema dell'economia" fa valere la sua dominanza strutturale rispetto al "subsistema della politica", crolla, per così dire, il cielo della politica. La "politica" vive il suo disincanto economico come una distorsione di tutti i suoi parametri. Pur esistendo ancora, o di nuovo, partiti esplicitamente di destra (o di estrema destra), tutti i partiti (anche quelli di sinistra) si spostano più a destra come reazione alla crisi; e benché il neoliberismo si presenti come ideologia particolare e i liberali come partito particolare, la posizione liberista penetra più o meno in tutte le ideologie e in tutti i partiti, di sinistra come di destra. L'elemento comune è la crescente dipendenza della "politica" dai criteri economici autonomizzati, il suo galoppante rimettersi a questi ultimi. Così non solo si esaurisce l'enfasi storica della politica, ma diventa visibile una crisi esistenziale di tutto il modo di socializzazione. La "crisi della politica" si aggrava insieme alla "crisi dell'economia" e della sua categoria centrale, il "lavoro"; la crisi dei "sottosistemi" rimanda a una crisi dell'intero sistema della merce, che incontra il suo limite storico assoluto nello stesso momento in cui si è lasciato alle spalle la sua fase ascendente e ha potuto essere, ma solo per un breve attimo storico, all'altezza di sé stesso.

- IV -

Come mostrano sempre più chiaramente le sue circostanze e i suoi svolgimenti, la "crisi della politica" non significa solo la perdita della sua enfasi e della sua ipostatizzazione storica, di modo che adesso potrebbe magari continuare tranquillamente come un sottosistema ridimensionato e senza illusioni, corrispondendo così alla sua vera nudità funzionalistica. Diventano visibili - o entrano nella coscienza pubblica - quelle strutture che in quanto "condizioni di possibilità" della politica hanno costituito finora lo sfondo silenzioso dell'intero processo sociale, ma che adesso si fanno notare come disturbi funzionali basilari. Questi disturbi, che indicano il crollo storico del sistema, appaiono essenzialmente come crisi ecologica, come crisi della società del lavoro, come crisi dello Stato nazionale e come crisi del rapporto tra i sessi. E proprio in questi settori, le mute strutture di sfondo della "politica" vengono alla luce ed escono dal silenzio. I rumori da catastrofe sociale suscitati dal loro crollo si convertono direttamente nelle grida di dolore della "politica", la cui funzione regolativa si sfalda insieme con il meccanismo funzionale economico. Nella precisa misura in cui le basi del sistema, non raggiungibili dalla "politica", perdono la loro capacità di funzionare, la sfera politica comincia necessariamente a girare a vuoto.

Fin dagli inizi del sistema industriale in forma di merce è stata deplorata la sua potenza distruttrice nei confronti della natura biologica. Questa potenza distruttrice esiste già nel processo basilare di astrazione operato dalla forma-merce stessa, cioè nell'indifferenza del denaro a ogni contenuto concreto. Finché la forma-merce conduceva soltanto un'esistenza marginale nelle nicchie delle costituzioni premoderne, il carattere distruttivo di questa "astrazione reale" (Sohn-Rethel) e del suo rapporto non-concreto con il materiale concreto del mondo si mostrava poco e piuttosto casualmente. Ma nella stessa misura in cui la forma-merce è diventata la forma della totalità sociale nella veste del capitale, doveva palesarsi anche il suo carattere distruttivo di fronte alla "prima natura". La conseguente crisi ecologica era inizialmente limitata a certi settori e ad alcune regioni; essa seguiva il processo dell'industrializzazione in forma di merce. È perciò solo logico se essa è diventata, con il compimento strutturale e globale del sistema produttore di merci dopo la seconda guerra mondiale, una diretta minaccia per l'umanità. Con il suolo, l'aria, l'acqua e il clima, la potenza distruttrice della forma-merce totale si estende alle basi più elementari della vita, diventando così, a partire dagli anni settanta, una questione politica permanente.
Ma proprio nella cosiddetta questione ecologica diventa evidente il carattere non-autonomo e strutturalmente dipendente della "politica"; più di un quarto di secolo di dibattito ecologico ha dimostrato da tempo questo fatto in termini pratici. La politica, per sua essenza, può risolvere i problemi funzionali solo all'interno della logica del denaro, ma non problemi che vengono suscitati da questa logica stessa. Dovendo lo Stato finanziare tutte le sue misure regolative, ciò vale naturalmente anche per le misure ecologiche. È la logica astrattiva del denaro a distruggere i fondamenti naturali; ma la riparazione dei fondamenti naturali costa a sua volta denaro che bisogna prima "guadagnare". Per poter riparare le distruzioni causate dal denaro, la società deve dunque "guadagnare" più denaro e operare più distruzioni. È facile calcolare che questa forbice si apre sempre di più, sfavorendo la natura e, quindi, i fondamenti della vita.

Il problema ecologico non può essere risolto, dunque, a partire dalla logica strutturale del sistema; e poiché la "politica" non può avere altro spazio funzionale che lo Stato, essa deve in ultima istanza arrendersi di fronte al potenziale di distruzione ecologica. La politica fa ricorso a misure secondarie, che costano il meno possibile allo Stato e debbono invece, tramite interventi legislativi, "internalizzare" in termini aziendali i "costi ecologici"; attualmente si parla di "tasse ecologiche", soprattutto di una tassa sui consumi energetici. Queste misure puramente legislative, che sarebbero per lo Stato addirittura redditizie, sono però destinate a fallire a causa della logica del sistema. In primo luogo, si infrangono contro la concorrenza internazionale. Essendo l'area di intervento dello Stato e delle sue leggi limitata alla nazione, e non accettando gli Stati perdenti sul mercato mondiale di legarsi per convenzioni ecologiche internazionali, il mercato mondiale punirà il rincaro dei prodotti causato dalle tasse ecologiche con la perdita della competitività, dimostrando dunque rapidamente l'assurdità economica di questa misura.

Si obietta che questo effetto può essere evitato se lo Stato, per compensare la tassa ecologica, abbassa il costo del lavoro (costi salariali aggiuntivi, contributi per la sicurezza sociale ecc.), impedendo in questo modo un rincaro dei prodotti punito dal meccanismo di mercato. Ma ciò significherebbe che lo Stato paga esso stesso la tassa ecologica, perché riduce altrove i suoi introiti e deve sovvenzionare delle misure fino allora pagate in altro modo (dalle "parti sociali"). Ma tutta la costruzione mostra per intero il suo carattere illusorio quando si aggiunge poi che lo Stato potrebbe finanziare le misure per abbassare il costo del lavoro proprio con la tassa ecologica. Un discorso palesamente assurdo, giacché la tassa ecologica, allo scopo di salvare le basi naturali, si prefiggeva da principio di abbassare drasticamente i consumi energetici e di indurre le industrie a investire in misure che risparmiano energia (pur di evitare, appunto, la tassa ecologica). Insomma: se la misura legislativa funziona, lo Stato non avrà sufficienti introiti dalla tassa ecologica per poter finanziare durevolmente i provvedimenti che debbono fiancheggiare questa stessa tassa sul terreno sociale ed economico.

È facile predire il reale effetto di una tassa ecologica sui consumi energetici. La grande industria investirà in misure per risparmiare energia, ma dovrà aggiungerne i costi ai prezzi, minando dunque la propria competitività; oppure rinuncerà a farlo per motivi di competitività, protestando presso lo Stato contro questa necessità di aumentare i costi aziendali. Lo Stato, a sua volta, proprio perché la grande industria reagisce alla tassa ecologica con investimenti che fanno risparmiare energia, incasserà troppe poche tasse ecologiche per poter finanziare con esse un ribasso del costo del lavoro. Si troverà perciò in grosse difficoltà e, per finanziare questo ribasso, dovrà "tagliare" altrove, con conseguente incremento della crisi. Se invece la grande industria preferisce pagare la tassa ecologica piuttosto che investire nei risparmi di energia, allora lo Stato potrà finanziare questo aumento dei costi tramite una compensazione per i costi salariali aggiuntivi, ma il tutto diventa un gioco a somma zero in cui va fallito il bersaglio originario: la distruzione della natura continua come prima, solo con un'ecotassa in più. La piccola industria invece, per la quale già gli investimenti per un drastico risparmio di energia sono inaccessibili, si troverà ancora di più tra due fuochi: per un verso soffrirà delle tasse ecologiche, per l'altro lo Stato potrà finanziare solo in misura limitatissima le misure di compensazione, proprio a causa degli investimenti della grande industria per risparmiare energia.
Comunque la si giri e rigiri: o la tassa ecologica fallisce per il solito problema del finanziamento, oppure diventa un gioco a somma zero e non raggiunge il suo vero obiettivo ecologico. Non è assolutamente possibile eludere il sistema basilare della valorizzazione del denaro attraverso il suo sottosistema della "politica". Una "politica" ecologica è perciò una contraddizione in sé: vuole cacciare un diavolo con un altro. In generale, non riesce a non ossequiare il principio della valorizzazione monetaria, ossia ciò che costituisce il vero problema. Questa contraddizione in sé non è altro che la forma fenomenica della schizofrenia strutturale dei soggetti della forma-merce; nella questione ecologica, questa schizofrenia appare anche in ogni singolo individuo della forma-merce, e non solo nelle mega-istituzioni strutturate sulla forma-merce. Nella crisi ecologica, ogni persona che guadagna denaro vede scindersi drammaticamente l'orizzonte dei suoi interessi. L'interesse monetario, un prodotto del sistema, costringe a partecipare alla distruzione sempre più accentuata della natura, mentre al contempo l'elementare interesse di vivere e di sopravvivere impone il superamento della logica monetaria. Ma quest'ultimo interesse, poiché trascende per sua essenza il sistema, si manifesta solo come ipocrita surrogato. L'infelice tentativo di sottrarsi attraverso il denaro alle conseguenze ecologiche del denaro dimostra la propria assurdità nella misura in cui vengono distrutte quelle risorse che neanche i più ricchi possono più pagare con il denaro. La "politica ecologica", invece, è il falso alibi di un'umanità che tramite la schizofrenia della forma-merce è diventata l'assassina di sé stessa.

La crisi ecologica poteva venir ritardata, rimandando cinicamente la finale catastrofe biologica ai figli e ai nipoti, finché è continuato ad arrivare almeno il denaro per gli interventi più urgenti. Ma ormai la "crisi della società del lavoro" si è sovrapposta alla crisi ecologica. Il modo di produzione capitalistico (il sistema produttore di merci) appare come valorizzazione del denaro; ma il denaro non è altro che rappresentazione di lavoro astratto passato ("morto"). Il capitale come denaro che si autovalorizza si basa dunque sulla tautologica e sempre accresciuta valorizzazione aziendale di quantità di lavoro astratto. Il continuo accrescimento è sistemicamente necessario, poiché il lavoro vivo impiegato deve continuare a utilizzare la massa di lavoro morto già accumulata; si tratta cioè di un processo in progressione geometrica. Anche se viene interrotto da periodiche "crisi di svalutazione", queste non possono ripristinare a un livello precedente dell'accumulazione del capitale. A causa dell'aumento della produttività, imposto dalla concorrenza, il livello di accumulazione raggiunto prima della crisi di svalorizzazione viene raggiunto di nuovo in tempi sempre più brevi.

Il nucleo del problema risiede nel fatto che attraverso l'aumento di produttività viene creato sempre meno "valore" per ogni prodotto e ogni capitale impiegato, perché il "valore" è un concetto relativo, misurato sul livello di produttività (storicamente sempre crescente) del sistema capitalistico cui si riferisce. Questa tendenza immanente alla crisi può dunque venir compensata solo da un allargamento assoluto del modo di produzione in quanto tale; solo questo allargamento può rendere possibile l'ulteriore accumulazione. Nella misura in cui l'incremento di produttività dovuto all'uso della scienza supera in termini assoluti l'allargamento del modo di produzione, questo meccanismo di compensazione comincia a venire meno. La società mondiale capitalistica ha raggiunto oggi questo stadio. Ciò che nel linguaggio della sociologia viene chiamato la "crisi della società del lavoro" è in fin dei conti il limite storico assoluto dell'accumulazione stessa del capitale. Sempre più faticosamente, l'intero processo sociale di vita e di riproduzione viene prolungato tramite la sostanza-"lavoro" passata e in via di invalidamento.

Ma la fonte della forma capitalistica e del suo feticismo si esaurisce ad opera del proprio meccanismo funzionale interno. La fondamentale autocontraddizione di questa società - cioè il fatto di basarsi sull'incessante trasformazione di "lavoro" in denaro, mentre tramite il proprio sviluppo è giunta al punto in cui non può più mobilitare redditiziamente abbastanza "lavoro" al livello di produttività che essa stessa ha creato - non si manifesta più solo ciclicamente, ma in modo permanente e visibile in superficie, così da condurre alla paralisi storica. È qui che diventa evidente l'assurdità dell'estremismo di sinistra tradizionale, che nega una crisi finale dell'accumulazione del capitale, per la sua incapacità di andare oltre il paradigma del "lavoro" e conserva, su questa base, il concetto borghese di soggetto; per esso, il capitale deve essere addirittura dotato di eternità e capace di continuare all'infinito lo "sfruttamento" della forza-lavoro.

Questo problema dimostra di nuovo la dipendenza strutturale e l'impotenza della "politica", che non può intervenire sui meccanismi basilari di funzionamento del sistema. Quando la vera fonte del denaro si esaurisce, la sfera politica deve morire di sete, perché non possiede un proprio mezzo di vita. Da una parte viene consumata la ricchezza storica rimasta, e i ritardatari storici e gli ultimi arrivati vengono colti per primi dalla crisi del sistema e spinti verso il crollo. Si è già visto, in molti casi, che non è possibile fermare questo crollo con mezzi statali e politici. Le "vecchie" nazioni del feticcio-capitale possono resistere più a lungo grazie alla loro maggiore massa di ricchezza storica, ma anche loro vengono investite dai fenomeni del crollo. Come "sostanza" appare il lavoro morto accumulato sotto forma di denaro più o meno "solido" e di riserve competitive di capitale.
Dall'altro lato, tanto le economie del crollo quanto i paesi capitalistici centrali cercano di prolungare la riproduzione capitalistica con la creazione di denaro "senza sostanza" (credito statale, consumo statale e emissione di banconote). La solvibilità a questo riguardo, cioè l'accesso alla fittizia capitalizzazione di "lavoro" futuro (mercati finanziari internazionali, forme derivative di capitale monetario) viene determinata dal rispettivo livello di produttività. Ma anche le diverse forme di "capitale fittizio" (Marx) non possono più venir mantenute, se dal meccanismo basilare di valorizzazione della forza-lavoro astratta, produttiva di capitale, non proviene più abbastanza sostanza "reale". Proprio questo problema viene però eluso dal vecchio estremismo di sinistra, che ha lo sguardo fisso su una concezione borghese di "sfruttamento" all'interno del sistema produttore di merci. La "crisi finanziaria dello Stato delle tasse" - discussa già a partire dal parziale distacco strutturale del "capitale fittizio" dalla reale sostanza di lavoro, avvenuto con il finanziamento della prima guerra mondiale - entra oggi in uno stadio finale che i politicisti di ogni tendenza non avevano ritenuto possibile. Nella maggior parte degli Stati dell'attuale società mondiale capitalistica, l'iperinflazione, il crollo delle finanze statali e la fine della sovranità monetaria indicano già il limite della capacità di agire politicamente all'interno del mezzo autonomizzato del denaro. È solo una questione di tempo (si parla del medio, o addirittura del breve termine) prima che pure nelle presunte "valute forti" centrali si manifesti, anche sul piano fenomenico, la già avvenuta perdita di sostanza, e crolli così il sistema finanziario mondiale.

Già adesso si vede sul piano pratico che la strutturale "crisi della società del lavoro" conduce logicamente - attraverso la perdita di sostanza del denaro, perdita che non è correggibile con interventi politici - alla strutturale "crisi della politica". La fondamentale perdita di funzione dell'"economia" si ripercuote nella perdita di funzione della "politica", che sul proprio terreno, quello dell'agire statale, viene sempre più strangolata monetariamente. Sicché la politica non ha più altra scelta che arrendersi al suo destino e regolarsi secondo lo svolgimento turbolento, o apertamente catastrofico, del disturbo della funzione basilare. Il dibattito politico sulla ridistribuzione di fondi diventa molto banalmente un dibattito sulla cancellazione di fondi. In rapporto alla posizione della rispettiva economia nazionale nella crisi mondiale, ciò arriva fino alla marginalizzazione di interi settori e di intere parti della popolazione. Lo Stato sociale viene ridotto o liquidato, i settori infrastrutturali statali decadono, le misure ecologiche vengono limitate, la pretesa regolativa della politica diventa sempre più debole e infine minaccia di svanire completamente. Il vacillare delle ultime luci politiche segue il ciclo economico sempre più debole, a cui però già da tempo si è sovrapposta la crisi strutturale della valorizzazione del denaro.

Come la crisi ecologica e la crisi del "lavoro" e della valorizzazione del denaro si sovrappongono l'una all'altra, paralizzando la "politica", così ad ambedue le forme della crisi del sistema si sovrappone la globalizzazione del capitale che fa saltare il quadro delle consuete economie nazionali, abolendo in modo ancor più radicale lo spazio di riferimento della sfera politica. Le stesse forze produttive che distruggono strutturalmente, da dentro, il basilare meccanismo funzionale del "lavoro" e della valorizzazione del denaro, dissolvono anche poco alla volta il quadro delle economie nazionali, a tutti i livelli. All'internazionalizzazione e alla globalizzazione dei mercati finanziari è seguita l'internazionalizzazione e la globalizzazione della produzione stessa, e quindi anche dei mercati del lavoro. Abbiamo sempre meno a che fare con l'importazione e l'esportazione di merci e capitali tra le economie nazionali: importazione ed esportazione di merci e capitali sono ormai solo forme fenomeniche di un capitale complessivo che si globalizza direttamente.

Lo Stato smette allora di essere il nesso funzionale di un'economia nazionale coesa, ovvero il suo "capitalista complessivo ideale". Come la perdita di sostanza del denaro strangola sul piano monetario l'agire statale e politico, così quest'ultimo perde anche la possibilità di controllare e influenzare ciò che è rimasto dell'accumulazione reale del capitale produttivo; gli sfugge perfino lo stesso movimento del "capitale fittizio". Accumulazione reale residua e "capitale fittizio" si rifugiano nella strutturale "terra di nessuno" (G. Reimann) dei mercati che agiscono al di là del quadro delle economie nazionali, benché formalmente ogni territorio appartenga a uno Stato nazionale. Lo Stato diventa ostaggio delle decisioni sugli insediamenti produttivi e dei movimenti internazionali delle finanze e della speculazione. Questa perdita di controllo, che ormai può essere mascherata solo faticosamente, indebolisce anche l'ultimo muscolo della "politica". Il cielo politico crolla anche nel senso che sparisce la chiara distinzione tra politica estera e interna. Non c'è più un "esterno" e un "interno" in termini di economia nazionale; e la politica perde ogni orientamento, poiché per sua natura non può inseguire il rovesciamento del sistema di riferimento.

- V -

La crisi del sistema politico ed economico complessivo, una volta che esso ha incontrato i suoi limiti storici, continua, al di là delle sfere funzionali visibili, nei meandri profondi dell'"intimità"; non solo nel senso che crescono la disoccupazione strutturale di massa, la nuova povertà e la perdità dell'orientamento politico, ma anche come declino della stessa forma del soggetto. Questo fatto, come la crisi in generale e il suo concetto, oggi sono molto difficili da riconoscere, perché la critica sociale sviluppata finora ("di sinistra") ancora non è riuscita a pensare al di là della forma-merce, per il semplice motivo che ha scambiato la crescente formazione del soggetto in forma-merce già per il suo declino. Un autentico paradosso. Di conseguenza, ora, non sa più decifrare la reale crisi finale e la reale decomposizione del soggetto, ma scorge in essa solo il già noto, ossia l'eterno ritorno di un capitalismo sempre uguale.

Questa osservazione vale soprattutto per la teoria di sinistra più progredita, per certi versi già quasi in grado di trascendere il sistema dato: quella di Horkheimer e soprattutto di Adorno. Il decisivo riduzionismo, imputabile all'epoca, di questa impostazione può essere riassunto così: il processo in cui l'individuo, il soggetto della forma-merce, diventa adeguato a sé stesso, è stato scambiato per il suo crescente declino, perché l'ascesa del sistema produttore di merci è stata scambiata per la sua decadenza. Su questa base, il punto culminante, e quindi il punto di un superamento considerato "mancato" o fallito, fu per forza di cose individuato in qualche momento della curva ascendente della modernizzazione, in verità allora non ancora terminata; a scelta nel 1848 o nel 1918 (o in qualche momento intermedio), invece di concepire l'odierno livello (che per Adorno e Horkheimer era dunque ancora futuro) della negativa socializzazione mondiale, della forza produttiva, della forma di crisi e della crisi del soggetto come tale culmine, dopo il quale il moderno sistema produttore di merci o viene superato (cosa che solo adesso è possibile) oppure cade nell'abisso.

Il mancato superamento teorico della forma-merce sociale è attestato, in Adorno, anche dal fatto che egli (anche se non in modo univoco) non trova il suo riferimento positivo nel superamento esplicito della forma-merce in quanto tale, ma in un'immagine illusoria, nonché ideologica, del passato, nell'agente di circolazione - più o meno segretamente idealizzato - caratterizzato dalla soggettività enfatica della vecchia borghesia colta; e perciò in una "ragione circolativa" idealizzata e in una conseguente falsa ipostatizzazione della democrazia. Dalla rivoluzione francese in poi, la sinistra si trascina dietro tale concetto ideologico di democrazia, dove la logica della circolazione di merci appare come l'archetipo di una comunicazione "libera" e discorsiva nella sfera politica. In ultima analisi si tratta del regno "ideale" della totale produzione di merci, ridotto alla circolazione e opposto alla sua vile realtà. Diciamolo apertamente e contro la sua iconizzazione operata dalla sinistra radicale: Adorno rimane, "in ultima istanza", un radical-democratico borghese, legato a un falso concetto di ragione che deriva dalla sfera di circolazione; egli non va coerentemente al di là della forma-merce in quanto tale (anche se va sicuramente più lontano della maggior parte dei suoi discepoli tardivi). Habermas non ha "tradito" il livello di riflessione adorniano, ma con la sua "ragione comunicativa", apertamente ricalcata sulla forma-merce, l'ha solo reso conoscibile in formulazioni meno criptiche di quelle di Adorno. Così non si supera storicamente la micidiale "astrazione reale".

Questo dilemma basilare di Adorno e degli adorniani ne comporta altri due. Innanzitutto, l'individualità e la soggettività borghesi non vengono criticate perché feticistiche, ma la loro evoluzione storica viene confrontata con il loro ideale falso e ideologizzato; ne risulta appunto quella confusione tra "coincidere con il proprio concetto" e declino, dove il concetto di "declino" già deriva da quel parametro ideologico. Invece di passare dall'analisi dello sviluppo storico del soggetto alla critica del carattere feticistico della soggettività in quanto tale, ci si limita a piangere sulle possibilità perdute del soggetto, concepito in termini enfatici ed ideologici. La famosa sfrontatezza del dire "io" [N.d.T.: Allusione a una frase di Adorno nei Minima Moralia (§ 29): "In molti individui appare già come una sfrontatezza che abbiano il coraggio di pronunciare la parola »io«"] fa parte della struttura dell"io" desunta dalla forma-merce in generale, non solo del suo "declino", come erroneamente si chiama spesso ciò che in verità è lo storico "coincidere con il proprio concetto" di questo "io" feticistico.

Inoltre, si fraintende completamente il motivo del presunto declino. Essendo il falso concetto enfatico del soggetto legato alla circolazione, lo sviluppo reale appare come una crescente sopraffazione della sfera della circolazione da parte dello statalismo e, dunque, della sfera politica. Ecco perché la Teoria critica si integra perfettamente nell'enfasi politicistica dell'ascesa capitalistica fino a metà Novecento (occasionali sbandate "economicistiche" non tolgono niente a questa tendenza di fondo della Teoria critica). La differenza rispetto agli altri politicismi di destra e di sinistra risiede solo nel carattere negativo del politicismo adorniano: insieme con il regno idealizzato della circolazione, anche la "democrazia discorsiva" idealizzata, in quanto "sovrastruttura politica", è ritenuta sopraffatta e invalidata, e proprio ad opera del supposto comando statale sulla circolazione (fino alla presunta "soppressione"!).

Come già detto, questo errore teorico si spiega nei suoi autori storicamente con l'impressione suscitata dal nazionalsocialismo (e anche dall'Unione sovietica stalinista); ma l'evoluzione del dopoguerra ha rapidamente smentito questo paradigma. Sotto il tetto della pax americana, abbiamo a che fare proprio con il trionfo della circolazione (concorrenza) e della democrazia, che giunto al suo culmine precipita nella storica crisi finale della forma-merce sociale. Non c'e allora da stupirsi che una teoria ideologica (da tempo banalizzata, rispetto ad Adorno stesso) che mantiene il concetto di una sopraffazione statale, latente o manifesta, della circolazione e della democrazia, e che vede sempre più allontanarsi il suo obiettivo falso e idealizzato, non sa più spiegare questa realtà. Così come non smette di rimpiangere le possibilità del soggetto, invece di criticarlo radicalmente per via del suo carattere di feticcio, allo stesso modo essa si preoccupa per la "ragione circolativa" e per la democrazia, invece di sottoporle a una critica radicale, in quanto elementi della costituzione basata sulla forma-merce.

Se in questo modo già i limiti storici assoluti del sistema produttore di merci sul terreno dell'ecologia, della "società del lavoro" (accumulazione di capitale) e della globalizzazione (dissoluzione delle economie nazionali coese) non possono venir decifrati, ancor meno si può decifrare la vera e propria crisi del soggetto che solo adesso diventa manifesta insieme con la crisi della stessa forma-merce. Questa crisi si manifesta da un lato come crisi del soggetto politico, perché la funzione regolativa della "politica" comincia ad esaurirsi: quindi come crisi e declino del "pubblico" borghese. Ma d'altra parte essa appare anche sul "retro oscuro" del soggetto, cioè nelle stanze nascoste e intime del "privato" strutturato sulla forma-merce. Non è poi un caso che l'identità della crisi del "pubblico" e del "privato" assume la forma di una crisi fondamentale del rapporto tra i sessi. Non diversamente dagli altri presupposti finora muti e "ovvi" del sistema produttore di merci, vale a dire la natura biologica, il "lavoro" e la nazione, anche il presupposto della "femminilità" comincia, a causa dello sviluppo del sistema, a emettere dei rumori anche striduli.

Questi elementi non erano certo mai stati del tutto privi di voce, giacché il sistema produttore di merci era contradditorio in sé fin dall'inizio; ma cum grano salis si può parlare di presupposti muti, in quanto la costruzione del "lavoro" e della nazione, così come l'addomesticamento della donna e della natura (equiparate tra loro dall'ideologia), suscitato dalla forma-merce, solo oggi stanno diventando insostenibili su vasta scala e cominciano a perdere del tutto la loro "naturalezza" formatasi nel corso dei secoli. Rispetto al rapporto tra i sessi diventa qui visibile il carattere "strutturalmente maschile" della soggettività a forma di merce. Già Horkheimer e Adorno nella Dialettica dell'illuminismo toccano questo problema (benché ancora una volta con formulazioni criptiche), ma senza riuscire, in fin dei conti, ad andare al di là della "mascolinità" ricalcata sulla forma-merce, proprio perché non riescono ad andare al di là del concetto feticistico di soggetto e al di là della "ragione circolativa". Non stupisce che gli odierni adorniani di estrema sinistra trascurino del tutto i passi critici del loro maestro e sanno dire poco sulla crisi manifesta del rapporto tra i sessi; né che abbiano un rapporto piuttosto snobistico nei confronti del femminismo. La teoria femminista invece, nella misura in cui si riferisce ad Adorno e Horkheimer, percepisce questo problema.

Non sorprende che la "ragione circolativa" e le sfere connesse di "privato" e "pubblico" risultino strutturalmente "maschili", smentendo così il loro carattere astratto e universale, apparentemente asessuato. In verità, l'universalità astratta è tale, in senso storico-strutturale, solo come contesto vitale maschile. Il soggetto maschile della merce è "privato" in quanto soggetto circolativo del denaro che persegue i suoi interessi monetari; esso è "pubblico" in quanto soggetto politico che si riferisce discorsivamente agli "affari generali". Ma dietro questa facciata di "privato" e "pubblico", strutturalmente maschili, si estende uno spazio completamente diverso dove vengono "relegati" tutti gli elementi della riproduzione che non entrano nella forma-merce. Questo spazio appare come una diversa potenza del "privato", situata al di là del "privato" del soggetto monetario maschile. Il "privato I" è il privato all'interno del contesto vitale maschile, il "privato II" è lo spazio di riposo al di là della concorrenza e della sfera politica, uno spazio reso accogliente dalla "femminilità". Dal punto di vista del contesto vitale femminile rinchiuso nello spazio del "privato II", tanto il "privato I" maschile quanto la sfera politica appaiono, al contrario, come il "fuori": ambedue sono il "pubblico" rispetto a quella grotta privata sessuata di cui è responsabile "la donna".

L'emancipazione femminile in termini borghesi e di forma-merce, così come si è svolta soprattutto negli ultimi due decenni, non smentisce questo rapporto basilare, ma lo rende visibile e lo mette in crisi. Così quest'emancipazione dimostra di essere essa stessa un elemento centrale della crisi complessiva. Le stesse forze produttive, che nella loro forma determinata dalla forma-merce distruggono i fondamenti naturali, eliminano il "lavoro" come sostanza dell'accumulazione del capitale e dissolvono la coesione delle economie nazionali, distruggono anche il rapporto tra i sessi determinato dalla forma-merce, inducono le donne a prendere le distanze dai loro ruoli, conducono al lavoro femminile di massa e alla "maschilizzazione strutturale" dell'"identità" femminile. Così viene divelta, involontariamente, una pietra angolare della costituzione in forma-merce, salvo poi deplorare irragionevolmente questo esito come "perdita della famiglia", dell'educazione ecc. La funzione del "privato II", finora largamente muta e "a sé", sta venendo meno. Non cambia niente, a questo riguardo, se ora le donne si concentrano, egoiche e competitive come i maschi, interamente sul "privato I", in cui ora sono sempre più presenti, o se crollano "solo" sotto l'onere di una dopia funzione, insomma a causa della contraddizione strutturale tra l'esistenza nel "privato I" e quella nel "privato II". Il risultato rimane lo stesso: lo spazio "dietro" la concorrenza economica e politica, dove erano state relegate la pace e la comodità, va in rovina.

La "politica" può agire su questo livello della crisi altrettanto poco, anzi ancora meno, che sui meccanismi funzionali economici. L'emancipazione femminile lungo i sentieri della forma-merce non realizza il concetto ideale dell'uguaglianza circolativa, ma esprime la sua contraddizione fondamentale come crisi del sistema. La dissoluzione, in parte già manifesta, dei contesti vitali femminili mette indirettamente in questione l'insieme complessivo del "pubblico" , strutturalmente maschile, sia nella sfera funzionale economica che in quella politica.
I nipoti della Teoria critica - che, come tutto il resto della Sinistra, non riescono a trascendere un modo di "essere a sinistra" che è immanente al sistema - nella (negata) crisi del sistema e nell'evoluzione di questa crisi insisteranno sempre di più nel dipingere il pericolo di una sostituzione della democrazia con un nuovo fascismo, oppure con una nuova forma di "dominio totale". Né mancheranno di proporre, come al solito, una versione "neoadorniana" del "male minore": la difesa della "ragione circolativa" e della democrazia contro il totalitarismo, invece di prendere di mira la forma-merce e la democrazia in quanto tali. Il "politicismo negativo" potrebbe facilmente rovesciarsi in un "politicismo positivo", confluendo nel "fronte unitario di tutti i democratici". Anche a questo riguardo, la tragedia dell'originale si ripeterà come farsa della copia. Ma così si dimostra definitivamente l'astoricità di questo antiquato pensiero "di sinistra", che si esaurisce in principi dualistici sempre ricorrenti, sicché non può stabilire un rapporto adeguato tra struttura e storia.

Il "dominio totale" era una fase passeggera dell'ascesa della democrazia; non era affatto il suo contrario, né una costellazione storica destinata a ritornare. Non sarà la "politica" a effettuare di nuovo un presunto controllo sull'"economia" o una presunta sospensione totalitaria della circolazione; abbiamo piuttosto a che fare con la fine catastrofica della "politica". La perdita progressiva della capacità regolativa politica indica l'esaurirsi della capacità di riproduzione economica, sociale e "di genere" da parte del sistema produttore di merci. Al suo termine storico non c'è il rinnovo del "dominio totale" come ritorno di una passata forma dell'ascesa, ma la decomposizione, fino alla barbarie secondaria, della civilizzazione basata sul dominio. La caotica guerra per bande e l'effimera "economia del saccheggio" nelle regioni perdenti del globo sono il segno premonitore di una forma di barbarie qualitativamente diversa da quella inerente al dominio civilizzatorio. Anche se dal legittimo punto di vista del sentire morale immediato le atrocità rimangono atrocità, tuttavia, nel contesto dell'economizzazione e della statalizzazione, esse sono storicamente qualcosa di diverso che nel contesto di una diseconomizzazione e di una destatalizzazione inconsapevoli. Teoricamente non si può più dire niente sul decorso di tale destatalizzazione, poiché non ha più un quadro sociale di riferimento.

Proprio per questo motivo, all'ordine del giorno non c'è l'"antifascismo", ma la critica radicale della democrazia da economia di mercato. Non c'è più una "ragione circolativa" da difendere, perché proprio questa si converte in barbarie, in un senso diverso e più profondo, anche più coerente, di quanto intenda la Dialettica dell'illuminismo. Perciò la violenza delle bande non è l'opposto della democrazia, ma si mescola alle azioni dell'apparato democratico, mentre il palcoscenico aperto della "politica" si converte nel teatro postmoderno della simulazione. Berlusconi non è (come non lo sono Reagan, Collor de Mello o Tapie) il precursore o addirittura il portatore di una nuova offensiva totalitaria, ma un fenomeno "postpolitico", come Paul Virilio e altri hanno costatato a ragione. Il totalitarismo sostanziale della modernità è quello della forma-merce e quindi della democrazia stessa. La fine della civiltà della forma-merce e quindi la fine della "politica" sono dunque il vero "superamento falso e negativo" del sistema, anche se non in un senso statalistico. Così Adorno alla fine ha parzialmente ragione, anche se in un senso completamente diverso da quello cui pensano i suoi nipoti teorici.

- Robert Kurz - Pubblicato sulla rivista Krisis n°14, del 1994 -

La traduzione italiana è quella apparsa su "La fine della politica e l'apoteosi del denaro", ManifestoLibri, Roma, 1997 -

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