domenica 19 giugno 2016

Sguardi

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È possibile un'azione politica a partire dalla teoria critica del valore-lavoro?

Con l'espressione azione politica mi riferisco alla possibilità di far germinare nella popolazione una critica della società del lavoro e delle merci che sia in grado di portare a forme di organizzazione e di partecipazione politica antagonista (movimenti sociali, gruppi di azione diretta, ecc.). Evito di considerare fra le forme di organizzazione politica, quella dei partiti, anche nelle circostanze della falsa dicotomia che viene oggi stabilita fra "vecchio" e "nuovo", dal momento che in entrambi i casi la gerarchizzazione e l'aspirazione a governare rendono impossibile che dal loro seno emerga una critica radicale.

Perciò, la questione è sapere se siamo pronti a superare il feticismo della merce e a sovvertire l'idea di lavoro in quanto asse organizzativo della società, del tempo e della vita.

Sono tre le domande che riassumono tale questione:

- Le attuali condizioni di crisi del capitalismo facilitano la diffusione e lo sviluppo delle idee della teoria critica del valore-lavoro?
- Come superare la psicologizzazione che il feticismo delle merci comporta?
- Siamo in grado di immaginare altre forme di relazione sociale, di disegnare anche solo mentalmente delle società post-capitaliste senza il dominino del lavoro astratto e delle merci?

Riguardo la prima domanda, credo che la crisi del capitalismo non abbia portato con sé condizioni più favorevoli alla diffusione e all'assimilazione della critica radicale che la teoria del valore-lavoro comporta. Come abbiamo visto nei testi di diversi autori, la reazione più generalizzata alla crisi del capitale (o alla sua agonia nella forma del turbocapitalismo) è stata quella di fare appello ale keynesismo. Si è deciso di richiamarsi al ruolo dello Stato in quanto regolatore economico e sociale, come se questo non fosse un elemento del capitalismo nella sua forma attuale, ignorando il fatto che è uno degli strumenti, o uno dei sotterfugi, più usati dai neoliberisti. E appare sempre più evidente che il capitalismo di Stato è solo un'altro dei tanti volti della società delle merci.

Ancor meno, la crisi del capitale ha generato le condizioni necessarie ad una "sospensione del giudizio" riguardo al concetto di lavoro. La precarizzazione delle condizioni lavorative e la precarizzazione del tempo di vita (tempo di vita che destiniamo all'acquisto di merci o ad ottimizzarlo in quanto merce) sembrano essere piuttosto uno stimolo nella corsa frenetica per arrivare a raggiungere posizioni migliori nel mondo del capitale. Siamo precari nel lavoro, perciò possiamo star certi che prima o poi la nostra situazione potrà o dovrà migliorare (come una sorta di promessa religiosa).

Dall'altro lato, i disoccupati, i disabili, gli emarginati (tossicodipendenti, detenuti, malati mentali), nel loro essere messi nella condizione di quasi-soggetti (in quanto non possono relazionarsi con la merce e come merce, non hanno posto nella nostra società), non sono nelle condizioni di poter attuare una critica del lavoro.

In questo modo, l'incantesimo continua a funzionare, e gli uni e gli altri aspirano solamente a salire un altro gradino nella società delle merci: i disoccupati a trovare un lavoro, per quanto precario possa essere, per poter sopravvivere; i salariati a migliorare le loro condizioni lavorative, la loro capacità di acquisto e forse arrivare a far parte del gruppo ambito degli "imprenditori". Se aggiungiamo a questo la pozione magica del debito ecco che abbiamo tutte le componenti per la mancanza di un'azione politica.

Ci aspettiamo allora una trasformazione che parta dall'individuo?

Questo porta alla seconda domanda: come superare la psicologizzazione che comporta la teoria del feticismo delle merci. Mentre la società delle merci si basa su un tipo particolare di relazioni sociali (le relazioni dei produttori assumono la forma di una relazione sociale fra i prodotti del lavoro), è anche vero che questo corrisponde ad un modo soggettivo, culturale o introiettato, di concepire la realtà. Ossia, il mio sguardo, per quanto critico, proviene da un soggetto che nasce e cresce nella società delle merci. Che scelta ho allora per reagire contro questa forma di società? Diventare un "Flâneur" nella città o isolarmi come un eremita in campagna? Come fare a non sospettare sempre di me stesso, dal momento che sono un prodotto della società capitalista?

Da questo sospetto ne consegue che il lavoro di immaginare una società post-merce non può essere "fantapolitica". Consola sapere che il capitalismo non è una forma immanente o astorica, ma concepire uscite collettive dalla società delle merci diventa difficile. Si deve cominciare con una fuga individuale o di gruppo, in avanti o di lato? Approfittare degli eventi per innescarne altri, in una catena, che mettano in pericolo o in discussione la società delle merci ("eventi" nel senso di Badiou o di Lazzarato)? È possibile trovare forme di azione polita che non finiscano per essere sottomesse e disattivate dalla macchina capitalista?

La critica radicale rappresentata dalla teoria critica del valore-lavoro non può essere fagocitata dal sistema capitalista, perciò il suo sviluppo teorico unito all'incorporazione dei nuovi antagonismi risulta indispensabile per poter passare dalla fantapolitica ad una azione-politica contro il lavoro e la valorizzazione del valore.

V.C. - 18 giugno 2016 -

fonte: Capital Y Crisis - Teoría crítica del valor-trabajo -

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